STORIA DI VERVÒ nei ricordi del maestro Francesco Gottardi e del prof. Giustino Nicoletti


Indice Prefazione Parte prima Nicoletti Giustino Angelo, il turista Pagina iniziale
Parte seconda Francesco Gottardi Capitoli: 1 2 3 4 5 Vervodium

Capitolo 1

Cap 1 - La preistoria del paese fino alla venuta dei Romani

1.1. - L'età paleolitica

Per quanto l'età paleolitica non formi propriamente oggetto di questo lavoro, tuttavia trovo opportuno farne accenno, costituendo essa la base sulla quale vennero a sovrapporsi le successive Età, ognuna delle quali è figlia ed erede della precedente; ed anche per dare maggior completezza e unità al lavoro.

Quando i primi uomini preistorici, provenienti dalla Pianura Padana penetrarono la prima volta entro i confini meridionali della nostra regione, l'umanità aveva già vissuto una lunga, difficile, pericolosa esistenza.

Questa prima età, che possiamo considerare come l'Infanzia del genere umano, fu chiamata dagli storici "Età Paleolitica", cioè della pietra antica e della pietra scheggiata.

L'uomo paleolitico visse per decine di migliaia di anni in condizioni fisiche, spirituali ed ambientali tanto difficili da rendere a noi, figli dell'era atomica, incomprensibile la loro sopravvivenza. Era indifeso e debole al confronto di una natura selvaggia e potente, costretto alla convivenza, non certo pacifica, con gli animali della foresta, molti dei quali ferocissimi, alcuni di enorme corporatura (mammut, orso speleo, lupi, cinghiali, cervi, renne, ecc..) che lo minacciavano e lo insidiavano di giorno e più ancora di notte. Inoltre era esposto continuamente all'inclemenza delle stagioni, all'avversità del clima, ai capricci del tempo, privo di tutto, perfino del fuoco, di cui molto tardi scoprirà il modo di produrlo.

Considerato tutto questo, sorge spontanea le domanda:

- Come mai questa misera creatura poté sopravvivere il mezzo a tanti pericoli e a tanti disagi?

Per un credente la risposta è una sola: Così stava scritto nel grande disegno della Provvidenza che ancora oggi guida e governa il nostro e gli altri (eventuali) mondi. Intellettualmente involuto, necessariamente ignorante e inesperto, vede nemici e pericoli ovunque, anche dove non ce ne sono. Soltanto col tempo imparerà a conoscere, a distinguere ciò che è pericoloso e dannoso, da ciò che è innocuo e utile. L'animale, questo, lo sa per istinto; il figlio dell'uomo, no; lo deve apprendere mediante l'osservazione continua e la dura esperienza, lentamente, giorno per giorno, provando e riprovando e, spesse volte, osando con grave pericolo della sua vita.

L'uomo paleolitico si rifugia prima sugli alberi, poi nella caverna che fu già covo delle belve; dà la caccia agli animali, usando armi primitive di pietra e la pesante clava di quercia; si ciba delle loro carni, si veste delle loro pelli, utilizzandone i resti per soddisfare altri bisogni.

Le sue facoltà intellettuali nascenti col tempo si sviluppano lentamente, sbocciano, danno i primi frutti. Egli osserva, ricorda, imita, ragiona, crea: si manifesta come "Homo sapiens" marcato in fronte dal sigillo di Dio. Un giorno scopre il modo di riprodurre il fuoco: la più grande, la più preziosa conquista, la fonte di ogni futuro progresso. Molti e vari saranno i servizi e gli aiuti ch'egli saprà ottenere immediatamente e nel futuro dal potente elemento.

Ma il risultato più importante, per quanto meno vistoso, lo si deve ricercare nel fatto che, attorno al ceppo che arde e scoppietta tra quattro sassi, nella non più oscura caverna, al calore benefico e alla luce misteriosa della fiamma del focolare domestico, gli affetti più cari ed i sentimenti più nobili latenti nell'anima umana ancora selvaggia, a poco a poco si riscaldano pur essi, si manifestano e prendono forma e sostanza di amore materno, paterno, figliale e fraterno; la buia spelonca diventa cenacolo e culla della famiglia umana che attorno al rozzo focolare, si forma, si sviluppa e si consolida: cellula, a sua volta, delle future genti.

Le popolazioni dell'antica Grecia e dell'antica Roma dedicheranno al fuoco, considerato sacro e divino, deità, templi, sacerdotesse, riti speciali, storia e leggenda. Con la scoperta del fuoco, l'uomo potrà sollevarsi sempre più dall'abiezione in cui viveva e dimostrare la sua superiorità su tutte la creature viventi.

Le principali occupazioni dell'uomo cavernicolo saranno necessariamente la caccia e la pesca che, oltre il vitto ed il vestito, gli forniranno le materie prime per costruire utensili e strumenti vari. Altra importante attività sarà la costruzione di vasi d'argilla.

E come passatempo, quest'uomo rozzo e selvaggio si dedicava, guarda un po', anche all'arte figurativa. Nelle caverne del paleolitico e sulle pareti rocciose furono scoperte pitture ed incisioni rappresentanti uomini, animali, scene di caccia di quell'epoca in cui si nota uno straordinario senso della vita e del moto (Altamura).

Fin da quest'età, l'uomo ebbe cura dei defunti, seppellendoli in luogo sicuro dalla ingiuria degli animali. Vicino alle salme usava deporre le armi e le cose, che erano state del defunto, manifestando un certo sentimento religioso d'una vita futura, nella quale il defunto avrebbe avuto bisogno, risvegliandosi, delle sue armi, per continuare la caccia interrotta.

Ecco il giudizio di antichi scrittori greci e romani sull'uomo paleolitico. Vitruvio Marco Pollione romano: Gli uomini preistorici nascevano nelle selve e nelle spelonche come le fiere e si alimentavano di cibi selvatici. Eschilo tragico greco (300 anni A. C.) Né con pietra sapean fabbricare case, né con travi coprirle; entro le tenebre d'oscuri spechi traevan la vita. Lucrezio poeta latino (51 A. C.) L'arme antiche furono le mani e d i denti e poi le pietre ed i rami d'alberi silvestri.

1.2. - Età neolitica.

Questa seconda età è caratterizzata da un discreto miglioramento delle condizioni di vita dell'uomo dovuto all'effetto di alcune novità progressive che vennero ad inserirsi nel corso evolutivo della vita umana. Una di queste fu dal passaggio all'uso della pietra scheggiata a quello della pietra lavorata, levigata.

L'uomo neolitico con paziente attento lavoro, riesce a dare alle armi e agli utensili di pietra taglio e punta più efficienti; dimensioni e forma più adatta alo scopo a cui dovevano servire. In tal modo si costruiscno con la pietra, asce, mazze, coltelli, pugnali, punteruoli, raschiatoi, punte di lance e frecce, ecc …, esercitando le proprie facoltà inventive e aumentando le sue possibilità di lavoro.

Un altro fatto determinante fu l'abbandono graduale della caverna che l'aveva ospitato e difeso per tante migliaia di anni, ma che ora, più evoluto, gli sembra divenuta una prigione che limita la sua libertà e offende la sua dignità d'uomo. Preferisce vivere pericolosamente, ma in piena libertà, sotto la protezione del divo sole e della dea luna; consapevole della sua superiorità sulla forza bruta della natura, affronta con coraggio i pericoli e le difficoltà della nuova avventura. Si ripara in rozze capanne di frasche all'aperto, sotto le tende, sotto lo strapiombo delle rocce (coveli), in luoghi elevati, collinosi e forniti di acqua potabile.

Può darsi che lLe nuove abitazioni non abbiano potuto fornire quelle comodità e quella sicurezza che offriva l'antica caverna, ma certamente, per quanto rozze e meschine, quelle erano più consone e più dignitose, alla natura umana che cerca di liberarsi da tutti quei complessi d'inferiorità dei quali, fino allora, era stata schiava, che aspira a sollevarsi dallo stato di sudditanza per occupare quel posto di dominio che le spetta per diritto di natura.

Ma il fatto più importante e decisivo che cambierà in meglio le condizioni materiali e spirituali dell'uomo neolitico, pietra miliare d'una nuova civiltà, fu l'idea di tentare l'allevamento degli animali lattonzoli: - cuccioli, agnelli, capretti, vitelli, puledri, ecc... Gli animaletti non solo si lasciano addomesticare senza reagire, ma, addirittura, si affezionano all'uomo che ha per loro tante cure. Anche gli adulti, non sentono più il richiamo della foresta dalla quale provengono, né più tentano di sottrarsi al dominio dell'uomo.

Così, a poco a poco, si sviluppò la pastorizia che ebbe felici risultati e benefiche conseguenze. L'esercizio della caccia divenne degradato a semplice occupazione complementare ed in funzione di difesa personale dell'uomo e dei suoi animali domestici: L'uomo pastore non aveva più bisogno di rischiare la vita per procurarsi la carne, le pelli e le pellicce ed altre cose, cacciando; ora può avere tutto ciò, senza nessun rischio, dai suoi allevamenti.

Con la pastorizia, l'uomo neolitico si solleverà un gradino più alto nella scala della civiltà; e comincerà a gustare la gioia di sentirsi indipendente e libero dal bisogno; guarderà verso l'avvenire con maggior fiducia, con molte preoccupazioni di meno. La pastorizia diverrà la fonte e la base della sua economia, promuoverà le piccole industrie casalinghe: la casearia, la tessitura, la costruzione di nuovi utensili vari. La convivenza con gli animali addomesticati frena il suo istinto selvaggio, ammorbidisce la sua rozza natura, dispone l'animo suo ad essere più umano nei suoi rapporti con le persone e gli animali che vivono con lui.

Però, l'esercizio della pastorizia obbligherà l'uomo a trasferirsi da un luogo all'altro dal bisogno di avere sempre nuovi pascoli (abbondanti). Prediligerà i luoghi ombrosi e aprichi, in valle oppure sui monti, a seconda della stagioni; abbandonerà le terre basse, acquitrinose e spesso minacciate dalle inondazioni. Le popolazioni della pianura padana, in movimento, tendono a spostarsi verso il Nord a piccole tappe.

L'uomo pastore è un nomade sempre in cerca d'una terra che lo accolga e in cui possa, dopo tanto peregrinare, fermarsi, e sistemarsi con la famiglia divenuta tribù e coi suoi greggi e con le sue mandrie, che sono la sua unica ricchezza. Per questo s'avvicina e tende ai monti eccelsi delle Alpi: guarda entro le valli profonde; ascolta, par che gli giungano sulle ali dei venti di tramontana voci misteriose d'un richiamo lontano, insistente, sollecitante. E un giorno, rotti gli indugi, leverà la tenda e riprenderà il cammino avventuroso.

In principio sono piccoli gruppi di singole famiglie che si spingono coraggiosamente entro le gole dei nostri monti, seguono a ritroso i corsi d'acqua scendenti dalle Alpi verso la pianura. Il rofessor Roberti scrive “Li accoglieranno le sponde del lago di Garda, la valle del basso Sarca (S. Bartolomeo, Cadine, Stravino, Vezzano ecc), la Vallagarina (Mori, Marco, Isera, Nomi, Pederzano, Pomarolo, ecc ...) la Valdadige (Man, Dos Trento, Vela, Mezzocorona, ecc ...), la Val di Non (Anaunia) - Vervò, Tavon, Dambel, Mecla, ecc).”.

I nostri primi immigrati raggiungeranno queste località in tempi diversi. Più tardi altri, seguendo le piste tracciate dai pionieri, dopo lungo peregrinare, preferiranno fermarsi e stabilire la loro dimora, mettendo fine al loro nomadismo: avvenimento importantissimo che susciterà nuovi bisogni, nuove iniziative, nuovi rapporti coi vicini, nuovi interessi, una nuova civiltà. Il pensiero più assillante è quando trovare una località adatta che presenti certe garanzie di sicurezza per ospitare persone e animali domestici.

1.3. - La prima comparsa dell'uomo in Valle di Non

È opinione generale che le prime popolazioni stabilitesi in Valle di Non provenissero dal Basso Sarca attraverso il monte Gazza ed il varco di Molveno - Andalo. Un'altra pista meno probabile (Zieger) potrebbe essere stata quella proveniente da Zambana Vecchia, Val Manara, Fai, (Terlago) Santel, Cavedago. È esclusa la gola della Rocchetta, perché fu aperta al transito molto tardi dai Romani.

Si potrebbe ammettere che i nostri pastori, non avendo trovato un posto conveniente per fermarsi nella regione dei laghi, fossero saliti sui monti Gazza e Paganella ricchi di pascoli. Da queste posizioni dominanti hanno potuto in tutta comodità ammirare la splendida valle di Non, scrutarne tutti gli angoli, fermare le sguardo e l'attenzione su certe località che potevano avere per loro un interesse tutto particolare.

La nostra valle, in quel tempo, doveva avere, però, un aspetto selvaggio. La flora e la fauna cresciute per millenni in piena libertà e sviluppatesi secondo le leggi della natura, dovevano formare un parco alpino d'aspetto impressionante e di contenuto veramente pauroso, non contaminato da nessun piede umano. In quelle fitte boscaglie, in quelle cupe foreste, in quelle forre oscure chissà quanti e quali animali selvatici si nascondevano e quale accoglienza avrebbero riservato ai primo uomini che avessero osato penetrare nel loro regno ancora inviolato.

Non c'era certamente da stare tranquilli! Anzi!

Ma se l'altopiano anaune, sotto questo aspetto era poco incoraggiante, i monti che gli facevano graziosa corona, coperti da verdeggianti pascoli su, su fino alle vette eccelse che si stagliavano nell'azzurro del cielo, avevano in compenso un aspetto tanto tranquillo e incoraggiante, da esercitare su quei primitivi pastori un richiamo irresistibile.

1.4. - Il monte Predaia

Tutto quel verde era una promettente realtà. I nostri pastori sapevano, per lunga esperienza, valutare tutta l'importanza che avevano per loro i pascoli alpini. Logicamente, dal loro osservatorio, non potevano optare che per il monte Predaia che si distendeva davanti a loro come un libro aperto sul leggio.

Il monte Predaia, chiuso nel triangolo formato dalle alte valli del Rio Verdes e del Rio Pongaiola (ramo Rodeza) convergenti in alto a quota 1650 (sul crinale al Zóu) con la base a quota di poco superiore ai mille metri, esposto al sole dalla levata al tramonto, era allora, come all'inizio del 1900, una distesa ininterrotta di verdi pascoli dal dolce pendio leggermente ondulato.

Se consideriamo che la Predaia era località più vicina e che l'itinerario per raggiungerla si presentava relativamente facile, senza gravi ostacoli in vista, era logico che alcuni nomadi preferissero la nostra verde montagna.

Si trattava di scendere al Noce, attraversarlo (alla confluenza del Rio Pongaiola), risalire la sponda destra del detto torrente fino al pianoro di Dardine, superare la collina di Priò e quindi proseguire verso la meta già in vista e vicina.

Il gruppo di pastori che presumibilmente percorse questa pista, giunto in località Vanasco, fece tappa sul Dos Ciaslìr posto a metà strada tra Priò e Vervò a quota 630 m.

Il dos Ciaslir fu visitato nel 1909 dal professor Desiderio Raich di Taio che lo descrive in "Paganella", 1910. Vi rinvenne cocci di vasi preistorici: una ciotola di pietra a otto facce regolari, la base di un corno di cervo e tracce di muri a secco all'ingiro e sul lato Nord. L'entrata è costituita da un terrapieno inclinato, opera dell'uomo, per raggiungere il margine del pianoro del castelliere, il quale fu abitato per un certo tempo e poi abbandonato per raggiungere la nuova sede in località san Martino a quota 900 m e per stabilirvisi.

1.5. - I castellieri

Mentre ai margini della pianura padana il bisogno dell'abitazione viene soddisfatto con la costruzione dei villaggi lacustri sulle palafitte (Varese, Garda, Ledro, Fiavè Iavré, ecc) nelle nostre vallate e nei territori montani la stessa questione viene risolta con l'occupazione di località elevate, impervie e di difficile accesso. Queste dovevano corrispondere e soddisfare i comuni bisogni: offrire una dimora sicura e stabile (per uomini ed animali domestici)

A tale scopo ben si prestavano i dossi isolati e le colline dai fianchi dirupati, scoscesi, muniti di difese naturali, completate eventualmente, dall'uomo con trincee di grosse pietre sovrapposte, con muri a secco, con palizzate ecc... Così tutti i castellieri si assomigliano tra loro per alcune caratteristiche comuni e assumono nomi affini a seconda del dialetto della località: Ciastiel, Ciaslir, Castion, Casteller, ecc ...

Il professor Raich, che nel suo studio si occupa estesamente del Castelliere (Ciaslir) di Vanasco, non fa parola di quello, ben più importante di san Martino. Anche l'insigne archeologo Luigi. Campi in "Scoperte archeologiche fatte a Vervò (arch XII . 1895), pur ammettendo l'esistenza d'una stazione neolitica all'aperto a san Martino, non fa nessun cenno del castelliere. Solo la professoressa Emilia Ortone * in "Castellieri della Val di Non” dice a proposito: -La posizione [san Martino] fa pensare a un antico castelliere prima che ivi sorgesse una fortezza Romana. (Castrum Vervassium).

Come si vede, o silenzio o una timida allusione. Troppo poco. Colui che scrive queste pagine, dopo dodici estati di scavi e di ricerche personali, è convinto che il Castrum Vervassium" fu costruito sopra la pianta dell'antico castelliere abbandonato dalla popolazione, trasferitasi nel villaggio Vervassium dalla stessa costruito sulla più ampia dorsale ad Ovest.

Non l'amore, per quanto grande, del loco natio m'induce alla convinzione di questo asserto, ma il cospicuo materiale archeologico appartenente alle età preistoriche rinvenuto duranti gli scavi da me eseguiti personalmente e da altri, come più oltre dirò.

1.5.1. - Il castelliere di san Martino

Il castelliere sorge a oriente del paese di Vervò, dal quale è separato dalla profonda valle di Fanzim, a quota 900 m.

Topograficamente la località ha la forma di una lingua di terra che, innestata al Colle Larsetti, si distende orizzontalmente (a Sud) verso il burrone dove scorre il rio Pongaiola, fiancheggiata a sera dal burrone di Fanzim e a mattina dal Buson; fasciata, quindi, su tre lati di rupi altissime e verticali: un vero promontorio monolitico di particolare interesse. Il quarto lato a Nord del castelliere è costituito da un gradino di roccia calcarea, ora ricoperto in gran parte da vegetazione arborea e cespugliosa, sotto la quale stanno sepolte le ruine, qua e là affioranti dell'antico castello (fortezza) dei Romani, nonché le reliquie delle età preistoriche precedenti. Visto da Nord ha l'aspetto di un bastione dalla fronte arcuata, al quale siano venute a mancare le precedenti soprastrutture, che solo la fantasia potrebbe ricostruire.

In questa località isolata, fortemente munita di difese naturali, fissarono la loro dimora i probabili primi abitatori della valle di Non e, comunque, i sicuri progenitori dell'antica gens dei Vervasses.

Siamo alla fine del Neolitico trentino (2000 anni circa A. C.). In quel tempo, il terreno entro e fuori del castelliere sarà stato coperto da folta vegetazione che i nostri occupanti avranno dovuto estirpare con le asce di pietra e con il fuoco, risparmiando le piante sui ciglioni delle rocce a scopo di protezione e difesa.

Con le piante abbattute, si saranno costruite le capanne semi interrate per le persone ed i recinti per gli animali domestici. L'acqua, elemento necessario per un centro abitato, era reperibile nelle vicinanze: al Pian di Verginaz, al Ri da le Cianal e dalle rocce stratificate (lasta vervoda), che fasciano tutt'attorno i versanti del vicino colle dei Larseti stillanti acqua in più parti.

In quel tempo i pascoli della Predaia, probabilmente, scendevano fino alla località, dove oggi sorgono Vervò e Sfruz, ne sono testimoni, ancor oggi, gli spazi erbosi ed i prati rimasti nei boschi comunali rispettivi: autentiche isole verdi, non ancora sommerse dall'invadente vegetazione silvestre, come il Plan Grant, il Plan da la Cros, il Plan da le Ciasèle, le buse de i Set Larsi, località ben note ai villeggianti, ospiti graditi, durante la calda estate di questi ameni paesi.

Ai pascoli della Predaia, aggiungonsi quelli della località Scarez di Vervò, i quali potevano soddisfare abbondantemente i bisogni della pastorizia; mentre le fitte boscaglie offrivano una ricca fauna per la caccia: orsi, lupi, cinghiali, cervi caprioli, volpi, pennuti diversi.

I prodotti della pastorizia e della caccia assicuravano il vitto ed il vestito alla tribù. L'uomo è sempre stato anche vegetariano e non avrà certo sdegnato i frutti del bosco e del sottobosco; mele e per selvatiche, corniole, nocciuole, ghiande, fragole, lamponi, mirtilli, nonché erbe e radici mangerecce.

Valutati tutti questi prodotti, atti a soddisfare i bisogni immediati e futuri, la tribù dei pastori prese dimora stabile nel castelliere di san Martino che divenne oggetto di cure amorose da parte di molte generazioni.

1.5.2. - La trincea di grosse pietre

Una volta sistemati, trovarono che il quarto lato Nord del castelliere abbisognava d'essere meglio difeso con opera artificiali.

Già prima d'iniziare i lavori di bonifica nel campo a san Martino, avevo notato nelle vicinanze e nel vecchio muro della via Crucis una quantità eccezionale di massi erratici. Data la configurazione del terreno a sella, coi due spioventi che precipitano verso i due burroni laterali, Buson e Fanzim, era da escludere che tutti quei massi fossero stati quivi abbandonati dal ghiacciaio della Predaia e la loro presenza, in luogo così limitato e poco favorevole, mi induceva a credere che dovevano esservi stati trasportati dall'uomo.

Ma a quale scopo? ... Non ne avvertivo la convenienza ed il bisogno. Quando, procedendo negli scavi durante gli anni 1934/1945 rinvenni alla profondità di 2 metri una specie di catena di tali massi, il dubbio di prima divenne certezza ed ebbi la risposta alla domanda che m'ero fatta. Evidentemente l'uomo primitivo aveva bisogno di chiudere maggiormente il lato Nord del castelliere, cosa che in quei tempi egli poteva fare usando i materiali che la provvida natura gli offriva per costruire: una trincea di grosse pietre sovrapposte - come ebbe a dire la professoressa Emilia Ortone. Le grosse pietre non dovevano trovarsi sul luogo per il motivo indicato sopra, ma c'erano certamente nei dintorni e nel bosco sovrastante, che ora ne risulta privo. La mancanza delle pietre da una parte, e la presenza delle stesse dall'altra si giustificano e si spiegano a vicenda.

La trincea fu la prima difesa artificiale del castelliere e ci fa pensare ad un'età preistorica molto lontana, priva d'attrezzi di metallo, altrimenti i primitivi avrebbero costruito un muro e non una trincea di pietre rozze, come faranno più tardi invece. Ciò vorrebbe significare che siamo nell'età della pietra o nel periodo di transizione (1500 A. C.).

1.5.3. - Il muraglione a secco

Subito dopo il rinvenimento della "trincea", scopersi un muraglione a secco dello spessore eccezionale di 1,60 m; poggiava sulla roccia alla profondità di 3 m. Poteva aver avuto in origine alcuni metri d'altezza: lo confermano il suo spessore e lo scopo evidente di difesa a cui doveva servire, ma quando lo misi in luce non misurava in altezza che un mertro, ora più ora meno. Correva parallelo alla trincea al piede del colle; era stato costruito saldamente con pietre di scaglia azzurra (lasta vervoda) abbondante nelle immediate vicinanze e di facile estrazione. In confronto alla "trincea", questa costruzione difensiva ci svela un progresso assai sensibile da farci supporre che siamo in piena età del bronzo o del ferro.

Se il muraglione avesse cinto, come è probabile, tutto il fronte Nord del Castelliere, esso costituirebbe un'opera certamente colossale che potrebbe essere stata concepita ed attuata solamente da una popolazione assai progredita, numerosa e forte, affezionata al luogo che essa dimostra di voler conservare e difendere da ogni minaccia esterna, perché essa ormai rappresentava la terra sacra dei padri e amata dei figli.

Sarebbe interessante ed utile accertarsi se la trincea e il muraglione percorressero tutto il fronte arcuato del castelliere (150 m): basterebbero alcuni sondaggi. Il muraglione, come la trincea, furono demoliti per una ventina di metri, ma pare continuino sotto il terreno inesplorato. Il lavoro di bonifica, o meglio di ricerca, procede d'anno in anno, benché faticoso e poco redditizio, con mia grande soddisfazione perché ricco di sorprese d'alto interesse archeologico. Ogni falda di terreno contiene tracce, resti, testimonianze della vita e del progresso evolutivo di una popolazione quivi vissuta per secoli e millenni.

Siamo in piena preistoria: molto tempo è passato; il progresso e la civiltà nel castelliere hanno fatto piccoli passi: la vita pastorale però continua e non tarderà molto ad associarsi all'agricoltura.

1.5.4. - Reperti archeologici preistorici rinvenuti a san Martino

1 - Ascia di nefrite levigata, scoperta a san Martino dal professor Campi di Cles, durante gli scavi da lui eseguiti (1890).

2 - Trincea di grosse pietre sovrapposte, gia descritta - scavi 1934/1945

3 - Muraglione a secco, spessore 1,60 m; scaglia azzurra - scavi 1934/1945

4 - Pietra, levigata a mandorla, sbrecciata in punta, di colore oscuro, durissima, con una faccia piana ed una convessa, del peso di 2,500 Kg circa.

5 - Una curiosa mazza-frusta di pietra calcarea locale; una delle mezze sfere risulta spezzata, conserva intatta la scannellatura e l'altra mezza sfera.

6 - Una cote di nefrite, lunga 23 cm, con le facce levigate spezzatasi; i margini vivi si dimostrano atti a tagliare il vetro.

7 - Cocci di anse di vasi diversi per forma e per grandezza, rozzi, primitivi, senza fregi, pochi con piccole incisioni oblique e parallele, costruiti con impasto di argilla e sabbia fine granulosa. Molti dimostrano d'essere stati molto al fuoco.

8 - Uno scheletro umano che merita un capitolo a parte.

9 - Ossa pietrificate, altre bruciacchiate, con ceneri e carboni.

10 - Una mandibola umana con diversi denti molto logori (adulto)

11 - La base d'un grosso corno di cervo, uno di capriolo lavorato, un frammento d'osso mandibolare con lunga zanna di cinghiale, corni di capre, un corno di volpe.

12 - Una dozzina di pesi da telaio, tronchi di cono e tronchi di piramide con foro in trasversale.

Questi reperti sono stati consegnati ai nostri musei, ma qualcuno è andato smarrito.

1.5.5. - Uno scheletro umano

Scavando alla profondità di 2 metri, portai alla luce, rimasto infilzato nel corno del piccone, l'osso occipitale d'un cranio umano. A tal vista rimasi perplesso e pieno di stupore, come avessi profanato una cosa sacra.

Deposto il piccone, inginocchiatomi, lavorai con le sole mani ad allontanare la terra che lo copriva, prestando la massima attenzione che non mi sfuggisse qualche oggetto appartenente alla persona ivi sepolta. Raccolsi, ricomponendole sul prato, tutte le ossa: dagli ossicini delle falangi dei piedi all'ultima vertebra cervicale. Speravo di trovare qualche ornamento personale, qualche manufatto ... Una grande delusione! Nulla ! Assolutamente nulla!

Quando mi accinsi a prelevare le ossa della testa, pensavo che la forma del cranio e l'apparato dentario avrebbero potuto svelare qualche particolare, darmi qualche indizio. Ma le mie mani scavano, frugano convulse nella terra ... più nulla! Nemmeno un ossicino ..., neppure un dente ... A tale constatazione rimasi inerte, muto ... a guardare il posto vuoto che doveva contenere il cranio e le altre ossa del capo e non sapevo rendermi ragione della loro assenza. Come si poteva spiegare questo fatto? Se tutte le altre ossa, compreso l'osso occipitale, furono rinvenute intatte nella loro posizione naturale? Era quindi da escludere che la tomba fosse stata manomessa.

Lo scheletro visitato dal dottor Franceschini, medico condotto del tempo, fu riconosciuto per quello di una giovane donna di 16-18 anni. Ella fu affossata, non c'era dubbio, col capo mutilato come io lo trovai.

Ma allora qui siamo di fronte a un dramma violento ed oscuro. Dopo aver formulato e respinto varie ipotesi, mi sono convinto che la povera ragazza fu vittima innocente della ferocia, non dell'uomo, ma d'una belva che, dato i tempi e il luogo, non poteva essere che l'orso.

Particolare importante sullo scheletro: Lo scheletro disposto con la testa a Nord, poggiava sul fianco sinistro, quindi rivolto ad Oriente, con le gambe piegate al ginocchio e tirate verso il ventre. Tale posizione fa pensare ad un rito funebre risalente al neolitico: inumare l'estinto in grembo a madre natura nell'identica posizione che il nascituro tiene, normalmente, nel grembo materno, volendo significare che l'anello della vita si chiude con la morte riportandosi alle origini in grembo alla terra.

Altra considerazione: Il fatto di non aver trovato nella tomba terranea nessun oggetto di metallo, se mi lasciò in principio molto deluso. Ripensandoci mi convinsi che non poteva essere altrimenti, se lo scheletro risaliva all'epoca precedente l'uso dei metalli. Infatti, se la persona fosse vissuta nell'età del bronzo o del ferro, non poteva non avere indosso qualcuno dei molti monili coi quali l'eterno femmineo era solito ornare la persona fino dai primi tempi. Con l'uso dei metalli e il progredire della civiltà il bisogno di ornarsi si accentua, tanto nella donna che nell'uomo.

Conclusione: Anche un nulla in certe circostanze può essere eloquente.

Il terribile dramma, tra molte probabilità, può essere così ricostruito: La giovane donna ritornava al castelliere sull'imbrunire; viene assalita, improvvisamente, da una belva che sta in agguato. Un urlo acutissimo, accompagnato da un feroce bramito. La fanciulla è rovesciata a terra supina e subito azzannata alla testa che sparisce nelle fauci orribili dell'orso famelico. Quel grido e quel bramito furono uditi e riconosciuti dai familiari che stavano in attesa della fanciulla. Armati accorrono in aiuto della povera fanciulla che sta per essere divorata. Troppo tardi! L'orso sorpreso e spaventato dal lume delle torce e dalle grida di soccorritori sollevò la bocca "dal fiero pasto" e fuggì lasciando il misero corpo ormai privo di vita, mutilato orribilmente, senza le ossa del capo come io lo rinvenni. Romanzo? ...Forse! ...

1.6. - L'età del bronzo

Ondate di sempre nuove civiltà provengono dall'Oriente e dalle sponde del Mediterraneo; penetrano e bonificano le terre, raggiungono le Prealpi, si spingono entro le valli del Trentino fino a toccare i posti avanzati sulle Alpi.

Le loro popolazioni beneficiano in misura diversa a seconda delle loro condizioni particolari dell'ambiente geografico più o meno favorevole ai contatti, agli scambi commerciali con i popoli progrediti più vicini e lontani.

La nostra regione, il Trentino, e non parliamo del nostro castelliere relegato nell'angolo più remoto dell'Anaunia, si trovano in condizioni e posizione geografica sfavorevoli. Per cui si spiega come tutte le novità progressive giungessero da noi in ritardo. Ma il progresso e la civiltà camminano e un giorno, sia pure in ritardo, giungeranno anche da noi e le nostre popolazioni se ne avvantaggeranno procurandosi i prodotti delle industrie di popoli progrediti, apprendendo nuovi metodi, nuovi sistemi di lavorazione delle materie prime di cui dispongono.

Ne fanno fede le forme più eleganti e più varie dei vasi, il materiale più accurato, gli oggetti di bronzo tipici di quell'età, rinvenuti casualmente o durante gli scavi e le ricerche in tempi diversi a san Martino.

Ecco un elenco di oggetti di bronzo in parte riportati dall'inventario del defunto prof. Roberti, il quale, qualche anno prima del suo trapasso, gentilmente mi permise di ricopiare la parte riguardante Vervò.

1.6.1. - Oggetti di bronzo

Una chiave, un chiodo a doppia capocchia, un fermaglio, un'armilla, un anellino, due fibule, uno scudicciolo, un vaso a di grosso spessore senza manico, un dischetto con traforo, frammenti tutti in bronzo.

Ma i rappresentanti inequivocabili di queste età sono i due cimeli di bronzo; un trapano a tre punte, lungo circa 10 cm, cilindrico ed un grazioso coltellino (un rasoio forse) ad arco, il quale, dice il Roberti, non ha da noi ancora trovato il consimile (Museo Naturale Trento).

Può darsi che almeno parte di questo oggetti, tutti in bronzo, appartengano all'età in parola, ma anche a prescindere da questi bastano le due armi di bronzo da taglio, trapano e coltellino, per darci la prova sicura di appartenere essi all'età del bronzo, segno che la vita nel castelliere continua regolarmente.

Il bronzo sarà, fino alla scoperta del ferro, l'elemento principe dominante e di grande sviluppo: metterà fuori uso gradualmente le armi e gli utensili di pietra con enorme vantaggio delle attività umane in ogni campo, dalle industrie alle arti figurative e ornamentali.

L'inizio, come la fine dell'età del bronzo, varia da luogo a luogo; da noi la si può stabilire dal 2000 al 1000 A. C.

I costumi e le condizioni migliorano; anche le abitazioni, pur sempre di legno, sono solide e corrispondenti ai vari bisogni della popolazione in aumento, allo sviluppo dell'allevamento del bestiame e dell'agricoltura in progresso. Le vallate tridentine vanno popolandosi anche in quelle zone scarsamente abitate (Valsugana e Val di Fiemme) All'inumazione si alterna l'incenerazione del cadavere. Anche a san Martino si trovarono tracce del doppio costume funebre.

Il governo della tribù è patriarcale; si vive in piena autarchia con scarsi rapporti commerciali coi popoli vicini. I prodotti della caccia, dell'allevamento del bestiame, dell'agricoltura possono soddisfare tutti i bisogni della popolazione locale. Verso il Mille A. C. lo sviluppo naturale demografico della Venezia Tridentina viene irrobustito da forti immigrazioni di popolazioni venete - illiriche e, più tardi, da esigue infiltrazioni di Etruschi dalla Pianura Padana, i quali fondendosi con le razze precedenti costituiranno quell'agglomerato di popoli alpini, che gli storici antichi (Livio, Trogo, Plinio, Tolomeo, ecc) denominarono "Reti", pur differenziandosi gli uni dagli altri per civiltà, costumi e lingua.

1.7. - I° Età del ferro - 1000 A. C. 

L'uomo, utilizzando le preziose esperienze acquisite nel fondere i primi metalli, continuando le ricerche e le prove, riuscirà ben presto a scoprire il minerale ferroso ed a fonderlo, impossessandosi così del più utile dei metalli: il ferro.

Il ferro per le sue qualità fisiche e per la ricchezza dei giacimenti molto diffusi in natura, rivoluzionerà e dominerà, da questo momento, la vita dell'uomo in tutti i suoi aspetti e determinerà il passaggio dell'Umanità dalla notte tenebrosa della Preistoria all'alba, sia pure ancora incerta, della Storia.

Naturalmente le innovazioni, da noi, giungeranno per le ragioni suesposte, in ritardo. Il nuovo corso assunto dalla civiltà nella nostra regione sarà dovuto, più che ad uno sviluppo naturale locale, all'infiltrazione di prodotti dell'industria metallurgica dal di fuori e alla comparsa di popolazioni nuove: Veneti - Etruschi - Galli. L'emigrazione dei Veneti periferici avvenne all'inizio dell'Età del Ferro, circa 1000 anni A. C. dai confini orientali della Regione Trentino Alto Adige, attraverso la Val Sugana, per i passi dell'Alto Cadore e della Pusteria. Essi si diffusero nelle vallate alto-atesine, in Val d'Adige, in Valsugana, in Valle di Non, sospinti dal desiderio di scoprire metalli nella cui lavorazione erano assai esperti.

Fu una penetrazione pacifica, quella dei Veneti, di carattere industriale, commerciale, di alto valore. Producevano e vendevano armi, oggetti e attrezzi vari di bronzo, di rame e di ferro, ornamenti personali: catenelle, pendagli, cinture, fibbie, ecc ...

La scoperta più vistosa di materiale veneto in Valle di Non, è quella fatta a Mechel e a San Zeno dal più volte citato archeologo De Campi e da altri. I Veneti usavano incenerire i loro morti e ne conservavano i resti in ossari d'argilla che seppellivano con le offerte, formando il tumulo. I vasi di terra cotta veneti hanno spiccati caratteri che mostrano l'influsso della civiltà greca di Spina ed etrusca di Bologna - Felsina.

Nel nostro castelliere non si rinvenne, fin ora, materiale veneto-etrusco, ma non si può escludere che ce ne sia poiché la zona archeologica inesplorata potrebbe riservarsi delle grandi sorprese.

1.8. - II° Età del ferro (700 A. C.)

Il contatto prima e l'assorbimento poi delle genti immigrate, giovarono molto alle popolazioni alpine, le quali appresero forme nuove più progredite di economia e di civiltà.

Le popolazioni vivono asserragliate normalmente nei loro castellieri, ai quali hanno fatto molte migliorie e comodità richieste dalle nuove esigenze di vita e rese possibili dall'uso crescente dei metalli.

Non più armi, attrezzi, utensili di pietra, ma di rame, di bronzo, di ferro, aumentati di numero e migliorati nella forma; non più zappe e aratri di legno o di corno di cervo; non più fragili capanne, ma case costruite con tronchi d'albero squadrati e ben connessi che offrono sicurezza e comodità. Finalmente l'uomo può dire di possedere un'abitazione, una casa che può aprire e chiudere a sua volontà.

Da noi le popolazioni vivono separate senza ordinamenti comuni, indipendenti, si amministrano ognuno per proprio conto, senza vincoli politici, in piena autarchia, essendo possibile solo qualche scambio di prodotti locali con altri prodotti industriali (ceramiche, bronzo, ferro) di altri paesi più progrediti o specializzati.

La proprietà comunale non è ancora definita. Tuttavia essa non doveva dar motivo di discordie con le altre comunità viciniori, perché i centri abitati della valle di Non e altrove erano ancora rari e ciascuno poteva fruire d'estesi territori, sui quali esercitare le sue attività senza disturbare né essere disturbati. Tuttavia non possiamo pretendere più di quello che la loro civiltà, ancora molto arretrata, poteva dare: i giorni e le notti non saranno stati tutti e sempre tranquilli. La famiglia si regge sulla Patria Potestà del capofamiglia; la comunità sul Capo elettivo e sul Consesso degli Anziani.

In quanto alle credenze religiose poco si sa; è certo però che le popolazioni pre romane avevano una religione, le loro feste rituali in onore degli idoli rimasti ignoti. Ad oriente del paese di Vervò c'è un altura (misteriosa), una roccia che si chiama Sass Mazadech sulla quale sembra che i nativi del luogo offrissero agli dei cruenti sacrifici e luminarie propiziatorie.

1.9. - Invasione Gallica

Un fatto storico importante intervenne ad elevare il tono di vita delle popolazioni tridentine: l'immigrazione dei Galli Cenomani.

I Galli Cenomani, una delle tante tribù stanziatesi nell'Italia settentrionale al principio del secolo IV a.C. penetrarono dal Sud delle valli del Sarca, del Brenta, dell'Adige e del Noce in numero rilevante. Sembra sia stata una penetrazione lenta, graduale e pacifica, non contrastata e, infine, benefica.

I Cenomani, in ottime relazioni con i Romani, avevano acquisito molto della loro civiltà e ne divennero i diffusori tra noi ancora prima dell'occupazione militare romana del Trentino.

Sembra che le loro pacifiche intenzioni verso i nativi, improntate a lealtà e vicendevole rispetto, abbiano creato un clima di sicurezza e diffuso senso di vicendevole fiducia da convincere gli abitatori ad abbandonare gli impervi e, talvolta, truci castellieri e a costruirsi una dimora più comoda, più civile nelle immediate vicinanze. Sorgono così, piano piano, i villaggi sulle colline, costruiti con criteri tecnici corrispondenti alle esigenze della nuova Civiltà. In questo quadro generale dobbiamo inserire la popolazione del castelliere di san Martino con il suo sviluppo e le sue ancora misteriose vicende.

1.10. - La Costruzione del villaggio

Non si può precisare quando avvenne l'esodo della popolazione dal Castelliere e il suo trasferimento nel villaggio dalla medesima costruito sulla vicina dorsale, ma è certo che questo accadde durante l'epoca gallica, due o tre secoli avanti Cristo, riservando l'antica dimora, probabilmente, per custodire il bestiame, i prodotti dell'agricoltura e come rifugio in caso di emergenza. Le materie combustibili e gli animali domestici introdotti nel villaggio avrebbero costituito un grave pericolo per se stessi e per gli abitanti, in caso di incendio, tutt'altro che improbabile, dato che in quel tempo le case erano costruite completamente in legno. Perché questo mio lavoro risulti integrale e mantenga la sua unità, sono costretto a riportare qui la pagina 149 del mio opuscolo - Il castelliere di S. Martino - della Rivista Studi Storici Trentini - Vol 2° - anno 1964. La collina sulla quale fu costruito l'abitato si stacca pure dal Doss Larsetti. Stretta in principio, si allarga e forma una specie di gibbosità al centro, poi declina verso Sud. Il fianco a mattina lungo la valle Fanzim, dopo un ripido pendio, termina sopra rupi altissime e quello a sera scende, pure ripido, verso la valle del Rio Ponticelli, costituendo, in tal modo, un'ottima difesa naturale del villaggio. L'antica area corrisponde esattamente alla parte dell'attuale abitato a sud della chiesa di santa Maria. Essa conserva tuttora intatta la pianta topografica originale, poiché la configurazione del terreno non permise, né permette di modificarne la struttura. Ha la forma ellissoidale: l'asse maggiore (Nord-Sud) è lunga 250 m e quella minore 100 m circa. Attorno al nucleo centrale correva e corre una via che si potrebbe chiamare di circonvallazione. In corrispondenza dell'asse minore un vicolo (frona) permette l'arroccamento tra le due vie e divide in due parti uguali il nucleo centrale. Il villaggio aveva due porte: una a Sud, con la strada che scendeva ai terreni coltivati; una a Nord sulla strada che conduceva al castelliere, distante 150 m. Ad ogni porta corrispondevano, internamente, due piazzuole che esistono tutt'ora. All'esterno del perimetro dell'abitato attuale ci sono orti e cortili, i cui muri di sostegno segnano con evidenza la linea di difesa dell'antico villaggio (steccato, palizzata, muri a secco e simili). Queste ed altre caratteristiche sono anche oggi individuabili, perché nulla è cambiato topograficamente, solo che in principio, le case saranno state necessariamente di legno. Sull'area dell'antico villaggio attualmente ci sono 45 case agricole, cortili e orti. Si può dedurre che il villaggio pre romano poteva ospitare 200 - 300 persone e costituire in quel tempo un centro assai importante, probabilmente il più importante della valle. Gli estesi e ricchi pascoli della Predaia e dello Scarezzo di Vervò permettevano un forte allevamento d'ogni sorta di animali da stalla e da cortile; i terreni coltivati, a Sud ed a Sera del villaggio, ottimi e ben esposti, potevano dare prodotti agricoli in quantità sufficiente per soddisfare i bisogni della popolazione locale. Per Vervò passava la pista che, proveniente dal lago di Garda e dal varco Molveno - Andalo metteva in comunicazione Bassa Val di Non con la Val d'Adige attraverso il passo Sella e di S. Barbara; (poiché nessun passaggio era possibile, a quel tempo, attraverso la gola della Rocchetta) e proseguiva ai piedi della Predaia e del Roen, raggiungeva l'Alta Anaunia e, per i passi della Mendola e delle Palade, scendeva in Val d'Adige più a nord. Tale fatto conferiva al nostro villaggio, in quei tempi e in quelli successivi dell'occupazione romana, un'importanza strategica che ne favorirà lo sviluppo economico e demografico. Ma un altro e ben più vigoroso impulso riceverà tra breve dai legionari romani, i quali stabiliranno qui non solo un'importante stazione militare, ma anche un nuovo centro di civiltà latina per cui Vervò fu ed è romano ancora.

1.11. - Riassunto della parte introduttiva

Da quanto è stato esposto fin qui, si può concludere che la base etnica della popolazione insediatasi nel Trentino era costituita da quei popoli Mediterranei denominati Liguri, i quali nel secondo periodo del neolitico, vi avevano portato la civiltà della pietra levigata e sviluppate le successive civiltà. Su questo fondo etnico che continua per secoli di generazioni vengono ad inserirsi verso l'800 a. c. larghe puntate di Veneti e poi esigui infiltrazioni di Etruschi che diffondono nelle valli Trentine e dell'Alto - Adige le loro civiltà più progredite, di carattere prevalentemente commerciale ed industriale. Più tardi, nella II° Età del ferro, si aggiunge una più estesa immigrazione di Galli Cenomani, in parte già romanizzati, che si fondono con le altre genti, formando un sol popolo detto i Reti. Abbiamo visto l'uomo preistorico passare dalla civiltà litica a quella del bronzo e del ferro; da pastore nomade a quello sedentario; dalla pastorizia all'agricoltura; dalla capanna alla casa di legno; dal castelliere al villaggio il quale, con l'avvento dei Romani (20 A. C.) entrerà nella storia col nome di Vervasium. Vervò potrebbe prepararsi a festeggiare il suo bimillenario.


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