STORIA DI VERVÒ nei ricordi del maestro Francesco Gottardi e del prof. Giustino Nicoletti


Indice Prefazione Parte prima Nicoletti Giustino Angelo, il turista Pagina iniziale
Parte seconda Francesco Gottardi Capitoli: 1 2 3 4 5 Vervodium

Angelo, un turista, scopre VervÒ

Immagino un turista della Val Padana che decide di venire a conoscere Vervò. Parte dalla sua splendida pianura senza confini, dove il cielo azzurro s'incurva tutt'attorno fino a toccare l'orizzonte, dove i prati sono un grande tappeto verde, punteggiato da tante cascine colorate, dove il grande Po, i suoi affluenti ed i canali pieni di acqua tracciano una rete di fili d'argento e le strade, e autostrade e ferrovie collegano tanti paesi, tante fabbriche, industrie simbolo del progresso umano.

Prende il treno, o l'autostrada, a Verona e in meno di due ore arriva a Vervò risalendo la lunga Val d'Adige, il grande solco che penetra nella catena delle Alpi, la grande via per la quale discesero nei secoli ed ancora oggi discendono i popoli del Nord e per la quale salirono a tappe nei secoli gli antenati degli abitanti di Vervò. Dopo mezz'ora di viaggio il turista immaginario, che chiamerei Angelo, giunge improvvisamente alle chiuse di Verona dove finisce bruscamente la pianura e cominciano le prime montagne che chiudono in una stretta fascia il fiume Adige, la strada, autostrada e ferrovia. Prosegue verso Nord e vede con somma meraviglia una valle angusta, lunga, fiancheggiata da montagne alte in media due mila metri (Baldo, Stivo, Cornetto, Bondone,e Lessini, Zugna,Vigolana,Marzola, monte Calisio). La meraviglia è paragonabile a quella di chi scende per la prima volta dal cuore delle Alpi e sbocca improvvisamente sulla pianura sconfinata, senza monti e senza valli. Il nostro turista, Angelo, percorre per chilometri e chilometri il fondo valle fiancheggiato dal fiume, da splendidi vigneti, da rocce altissime. Attraversa soltanto due città: Rovereto e Trento e giunge alla piccola conca di Mezzocorona e di Mezzolombardo (Piana Rotaliana), circondata a sinistra dall'altissima montagna della Paganella e, a Nord, dalla cresta di altre cime che scendono con speroni e fessure di rocce verticali dalla stretta della Rocchetta a Roverè della Luna e Salorno, e dietro le quali si giace appunto Vervò.

I nomi Mezzolombardo e Mezzocorona (detto anche Mezzodedesco) stanno ad indicare che siamo giunti alla linea di discrimine tra due etnie, quella italiana (Lombardi e Veneti) e quella tedesca (Tedeschi scesi nel medioevo con le invasioni e gli eserciti imperiali, anche come minatori)

Il nostro turista, se non sapesse leggere bene la carta stradale, si troverebbe imbottigliato e allora si volge a sinistra, verso una spaccatura della montagna, dalla quale esce il torrente Noce, spaccatura così profonda, così ripida tra altissime rocce, che per secoli fu invalicabile (lago di Castelletto). Gli uomini del primo Medioevo intagliarono una strada nella viva roccia, sopra il burrone profondo dove scorre il Noce, vi costruirono una fortezza e la gola fu chiamata la Rocca o Rocchetta. Oggi la rocca non esiste più perché fu abbattuta, ma nei miei anni giovanili l'ho attraversata tante volte sul tram della Val di Non che passava sotto l'arco accanto ai carri pesanti di legname e ai viandanti che, a piedi e carichi di zaini e di pacchi, percorsero la stretta via. Angelo attraversa in macchina il ponte e improvvisamente si trova ad essere al fondo di un'altra valle, che s'intravede sulla sinistra, e non sa ancora immaginare quanto sia ampia, perché ha di fronte il massiccio delle Dolomiti di Brenta ancora bianche, innevate durante tutta la primavera. Respira un'aria fresca, nuova, di boschi e, a misura che sale, scopre un panorama sempre nuovo, che si estende ad anfiteatro sempre più vasto. I prati quasi spariscono sotto la selva degli alberi da frutto che producono saporite mele di varie colorazioni e sapore. Dal mezzo dei meleti si alzano a macchia potenti getti d'acqua degli impianti d'irrigazione a pioggia che punteggiano i dolci fianchi dei colli e dei pendii.

Giunto a metà della valle, già a 500 metri di altitudine, precisamente al paese di Mollaro, resta affascinato dalla grandezza, dalla bellezza del paesaggio. È la splendida Valle di Non, la più ampia di tutte le valli alpine, ricca di castelli famosi, di storia antica e moderna, di uomini celebri, di preistoria e di formazioni geologiche.

Il nostro Angelo volge intorno lo sguardo ad ammirare le decine di piccoli villaggi biancheggianti tra il verde sui larghi fianchi, sui terrazzi e sui colli dell'amplissimo anfiteatro della Val di Non, ma non riesce a vedere Vervò e nemmeno immagina in quale direzione si possa trovare. Scorge la targa stradale con la freccia "per Vervò", attraversa il paesino di Mollaro e la piattaforma della sua ricca campagna, fitta di alberi da frutto, percorre la strada asfaltata, panoramica, in salita sul versante orientale del Noce fino al paesino di Priò. È la prima frazione del comune di Vervò (Rocca Prior), ma Vervò non si vede, come non esistesse. Sembra impossibile che esista un paese ai confini della montagna e della valle profonda davanti ad Angelo. Si attarda alla croce in pietra all'entrata di Priò ed ammira il paesaggio vastissimo della Valle di Non con la catena delle Dolomiti di Brenta che gli sta di fronte.

Attraversato Priò e, percorso un chilometro di strada, dopo un'ampia curva a 90 gradi ecco, lontano, in alto, a mezza costa tra il verde dei boschi, un nastro bianco di case: quello è Vervò. Priò si trova al termine di una lunga e stretta fascia di colli da Nord a Sud, sporgente su un promontorio che precipita nella profonda valle del rio Pongaiola (zo 'n la Val). Una seconda serie di colli chiude a occidente il relativo vasto anfiteatro di Vervò, mentre a Nord Est, lontano, domina l'alto monte Roen (2250 m) e la Predaia e ad Est la grande selva di abeti, pini e larici del monte Corno di Tres, dei Cimoni, Cima d'Arza e Malachino, che fanno da spartiacque con la Val d'Adige. Certamente Angelo proverà un senso di stupore, come lo provavo io nella mia giovinezza al vedere il mio paese natale ogni volta che ritornavo in estate dai miei studi a Trento.

Allora la strada per salire a Priò era bruttissima, erta, sassosa, con solchi profondi scavati dalle ruote ferrate dei pesanti carri tirati dai muli o dai buoi e carichi di tronchi d'albero (le bore), di legna e di altri materiali. A luglio i pendii di campi e prati, qualche filare di viti, era brullo, giallo per la siccità. Lungo quella strada per tanti anni ho portato sulle spalle la pesante valigia con i libri ed i poveri indumenti. Quasi due ore a piedi da Mollaro a Vervò, ma pieno di ansia e di gioia di arrivare a casa. Ora la strada è asfaltata e sale per sette chilometri a larghe curve, percorsa da automobili e camion fino a Vervò ed oltre, fino alla Predaia e Sfruz. In località Sovenel il paese appare in tutta la sua magnificenza, allungato su una bianca linea orizzontale sullo sfondo di un ampio scenario fatto di verdi prati coperti di una selva di frutteti, incorniciato di verdi boschi, e, in lontananza, dalla vasta distesa chiamata Predaia, oltre alla quale domina la vetta più alta, il monte Roen. A destra l'orizzonte è limitato dal monte Corno di Tres, dai Cimoni di Vervò, cima d'Arza coperti da una grande selva nera di conifere ed i loro versanti, a balze, scendono fino al fondo della valle del rio Pongaiola, rivestiti del giallo dei larici e dai vari colori delle latifoglie in autunno, dal tenero verde primaverile e dal verde intenso degli abeti in ogni stagione.

Ma intanto sotto gli occhi del turista scorrono i prati letteralmente coperti dalle piante di melo, innaffiati dai potenti getti dell'irrigazione a pioggia, che girano lentamente su se stessi e lanciano degli archi d'acqua di una decina di metri e non di rado trasformati dal sole nei colori dell'arcobaleno. Ad un tratto Angelo s'arresta stupefatto. Di colpo il gruppo dei getti sparisce in una zona e riprende in una zona più lontana, come per un incantesimo. Ed è proprio un comando elettrico che li regola a tempo mediante impulsi che partono dalla cabina di distribuzione elettronica posta in uno scantinato del Municipio. Una meraviglia d'impianto d'irrigazione, che fu suggerito dall'esperienza fatta in Israele dove questa tecnica irrigua trasformò varie zone desertiche in giardino. Se il nostro turista passasse tra aprile e maggio, potrebbe respirare una fresca aria di montagna impregnata di un sottile profumo emanato da milioni di fiori bianchi o rosei che coprono tutti i meli in fioritura sui prati, sui campi, sui colli e nelle vallecole, tanto da sembrare una grande nevicata in piena primavera.

Non così al tempo della mia gioventù. Quando ritornavo a casa affaticato ho spesso visto la campagna di un colore giallo bruciato per l'enorme siccità. Praticamente non c'era né acquedotto, né irrigazione. L'acquedotto del 1906 poteva irrigare solamente una piccola parte dell'estesa campagna di Vervò attorno al paese. I campi arati e seminati a frumento, segale, orzo, avena (biava) granoturco sembravano lenzuola gialle, aranciate, verdastre distese sui prati bruciati dal sole, con pochissimi alberi: macchie di latifoglie, stentate pinete, qualche melo e qualche pero. I grandi noci, sparsi qua e là, erano visitati ogni tanto da stormi di corvi neri gracchianti. Sotto il sole fiammeggiante di luglio nell'aria purissima di montagna, nel cielo azzurro, la strada sassosa a solchi e buche profonde, quasi sempre deserta, era percorsa, come nei secoli passati, da qualche carro pesante tirato dai lenti buoi o dai potenti muli. Altro che le automobili!

Ora Angelo sta per giungere al paese. Incontra il primo gruppetto di case sul colle e una bella grande croce di pietra lavorata al bivio di Trissai. Questa è la prima croce all'entrata da occidente del paese. Porta incisa una scritta per ricordare i nostri emigrati, partiti alla fine del secolo scorso in cerca di fortuna nelle Americhe - in Venezuela, e taluno non più ritornato.

La croce dai nostri antenati era sempre venerata: al passaggio davanti ad essa, levavano il cappello, facevano il segno del cristiano, ricordavano i loro cari lontani per sfuggire alla miseria. Oggi i paesani passano indifferenti, non guardano quasi più la croce che è come un segnacolo di un paese che una volta era stato pagano e ora cristiano e nemmeno onorano le altre tre croci di pietra. Una sta a Nord sul trivio di Aurì che mena alla piana di Lanzon, colli di Nossaé, alla valle d'Anzan,; una a Sud sul bivio che mena za Vin (così detto perché in quella parte di campagna c'erano i vigneti), a Cugol, in Prada e alla Cucciaiana, dove c'era il più grande noce di Vervò, proprietà della mia famiglia, grande e largo come un piccolo grattacielo; la terza sta ad Est sul bivio che mena da una parte alla valle Pongaiola, verso la Malga e via al Mont alla grande selva e dall'altra allo splendido e suggestivo cimitero di san Martino.

Poi Angelo passa “el Rì” sul ponte de la Rosta, il rivo ai piedi del paese, con la sua cascatella, sempre allegro, specie in primavera ed in autunno, importantissimo, come dirò, per la vita del paese in passato e imbrigliato più sotto nell'attraversare il fondo di proprietà della mia famiglia da un muraglione a diga con grossi massi cui hanno lavorato con grande fatica mio zio Pio ed i miei fratelli.

Angelo giunge così alla prima abitazione di Vervò. A destra una splendida casa sociale (edificio polifunzionale) con grande sala per riunioni, conferenze e piccoli spettacoli, e ufficio amministrativo della Pro Loco. Fino a dopo la Seconda Guerra mondiale lì sorgeva la segheria comunale poi affittata a privati - ai Zopi e ai Zani – con annesso mulino comunale. Prima che arrivasse l'energia elettrica in paese, la segheria era azionata da una turbina alimentata da una condotta forzata che veniva dal serbatoio dei Larsetti (oltre cento metri di dislivello). In seguito (nel 1922), dopo la Prima Guerra Mondiale, fu mossa da un grosso motore elettrico. Nel piano terra era stato ricavato un mulino, azionato anch'esso prima ad acqua e poi con la corrente elettrica, ove la mia famiglia e le altre famiglie del paese, anche di Priò, portavano il frumento (formént), la segale (segiàla), il grano turco (formentaz), il grano saraceno (formenton) a macinare.

Le farine ottenute servivano a preparare in casa il pane, le torte ed i “tortiei”, nonché la polenta che era l'alimento principale. In paese non c'era fornaio prima della Prima Guerra Mondiale. Solo una famiglia (el Can) ogni tanto faceva un po' di pane da vendere con la farina portata da un asino risalendo per la "strada delle svoute" dal proprio mulino molto primitivo in fondo alla valle del rio Pongaiola (sotto Cugol). Era il cosiddetto pane della Banca (la bancia del pan), un lusso straordinario, solo per qualche festeggiamento in famiglia. Ma io e quelli della mia età abbiamo mangiato il pane a forma di grande focaccia che le nostre madri e le nostre nonne cuocevano sul fogolar o nel forno. E d'estate mangiavamo il pane di segale, cotto nei grandi forni di alcune famiglie, come la mia, in apposito locale ben presto annerito come la bocca dell'Inferno a causa del fumo. Era un pane profumatissimo appena fatto, poi si seccava come il baccalà e si conservava come un pane biscottato. Si avvolgeva in un rude tovagliolo (mantìn), con un martello di legno veniva frantumato e si mangiava ammorbidito nel café-lat - caffelatte - (caffè di cicoria allora).

Subito oltre la Casa Sociale ecco un'altra casa ora adibita a uffici e servizi vari, ma che fu un moderno caseificio fino agli anni settanta. Ai miei tempi era fiorente (e luogo di ritrovo) perché c'era tanto bestiame (bovini, caprini, ovini). Era una delle principali ricchezze del paese. Il bestiame era numeroso perché c'era la possibilità di alimentarlo col fieno dei tanti prati dell'esteso territorio di Vervò in campagna e montagna, i quali ne producevano in quantità abbondante, se la stagione estiva non era troppo siccitosa, fieno sano, genuino di erbe di montagna, mentre oggi non cresce quasi più per i diserbanti sotto la selva dei molti meli, o risulta avvelenato dagli insetticidi spruzzati sulle chiome degli alberi più volte prima e dopo la fioritura, fino al momento della raccolta. Non è un ambiente piacevole e favorevole ad uccelli e api. Fortunatamente oltre la campagna si estendono estese zone di bosco e di foresta per questi animali e per noi.

Allora erano importanti le malghe, per Vervò quella via al Mont, dove pascolavano le vacche e giovenche (manze) durante l'estate, mentre i contadini facevano la monteson e mietevano il grano. Salivano a falciare in Predaia e su a Spin, una spettacolare zona di prati di alta montagna, senza alberi, con gruppi di noccioletti, tutta in lieve declivio. I prati di montagna della Predaia fornivano ed offrono un ottimo fieno ricco di erbe aromatiche, sostanzioso e gradito ai bovini, conservato nei fienili della case sulle "are" o “ent el stabel” per l'inverno. Così il latte era abbondante ed io non so quante volte, o di mattina o di sera, l'ho portato al caseificio "al ciasèl", appena munto, ancora caldo, con la "spluma" alta un palmo, di cui ero ghiotto.

Ora il caseificio è chiuso, non c'è più. Le nuove famiglie vanno a comperare il latte con le bottiglie ed i secchielli quando arriva il camioncino dei grandi caseifici di Tuenno o Segno, ai quali gli allevatori di Vervò conferiscono il latte presso il vecchio caseificio. Verrà poi mescolato col latte che arriva in grosse autocisterne dalla Baviera e perfino dall'Olanda.

I moderni Vervòdi comperano il pane fresco tutte le mattine alla bottega del Dario Panzin o alla Cooperativa. Si tratta di pane di Vervò perché nel paese c'è una famiglia de “pistori” - el Forn del Can – con un moderno forno che fornisce anche i paesi vicini di pane. Altro che il “pan” della mamma, della nona e il “pan de segiala”!

In fine, per buona parte dell'anno c'era il pascolo delle bovine su nel bosco e nei prati autunnali da parte di alcune famiglie ricche di bestiame, al fine di risparmiare il fieno per mantenere tutte le bestie durante il lungo inverno e riuscire così a vendere “i arlièvi” – i vitelli - in primavera. Io stesso ho pascolato le mucche nel bosco, in Predaia (dopo il 15 agosto), o via a Solven, o “dria le strade” nel nostro grande fondo e perfino qualche domenica d'estate, quando ritornavo a casa dai miei studi a Trento. Mio padre più di una volta mi mandò fino al burrone di Fanzim (zó n' Fanzim) sotto la nostra casa. Quante volte nel pascolo, giocando con i miei compagni pastorelli, ho smarrito il bestiame e, non riuscendo a ritrovarlo, tornavo intimorito e piangente a casa dove, con infallibile istinto e senso dell'orientamento, le vacche ed i vitelloni erano già ritornati da soli e stavano ruminando nella stalla. Ricordo anche le pecore e le capre che la mattina mi svegliavano con i loro campanacci sotto la mia casa, radunate dai paesani dopo che il pastore, Zan del Perolonç, emblematica figura, aveva fatto il giro del paese suonando il suo corno di richiamo.

Di fronte al Caseificio fa bella mostra di sé una grande officina meccanica che un bravissimo giovane di Vervò con grande spirito d'iniziativa è riuscito a costruire per la riparazione degli autoveicoli e macchine agricole. Infatti ormai sono numerosissimi i veicoli per un piccolo paese di 450 anime: qualche famiglia ne ha due, qualche altra, come quella dei miei nipoti che vivono insieme, ne hanno quattro. E sulla strada è un via vai di macchine e trattori, per quasi tutta la giornata ed il sabato anche di notte.

Finalmente il nostro turista prosegue e arriva nella piazza del paese, trova facilmente posto per posteggiare, scende dalla macchina e si guarda attentamente in giro stando in piedi a braccia conserte appoggiato ad essa. Angelo non può nemmeno immaginare di aver messo piede sopra il suolo che fu abitato fin da oltre 2000 anni, sempre da un nucleo di abitanti di non più di 500 abitanti e tale mantenutosi fino ai nostri giorni.

Appoggiata al muro di sostegno dell'òrt del Vezili c'è una piccola fontana semicircolare di ridotte dimensioni che sostituisce quella ottagonale, grande e bella che stava in mezzo alla piazza. Essa risaliva al 1906, quando era stato costruito il nuovo acquedotto; a sua volta, aveva rimpiazzato un'altra piccola fontana che gettava solo un filo d'acqua, ed era stata costruita a nord della casa dei Pitari nel luogo chiamato "El lach" perché raccoglieva l'acqua che filtrava dalle laste vervode in una fossa. Mi raccontava mia madre, che abitava la bella casa di fianco, alle tre di notte correva a mettere il secchio prima degli altri sotto qual misero getto d'acqua (pissarèla). Per secoli il paese fu senza acqua sufficiente e questa era attinta con botticelle giù al Ri che Angelo ha attraversato, o “fuèr Aurì” dove scorreva vicino all'ultima casa.

C'è però da ricordare che in molte case del paese a pianoterra o in cantina c'era un piccolo pozzo, riempito dallo stillicidio delle laste Vervòde. Serviva per abbeverare gli animali domestici. A casa mia c'era un grande pozzo, sempre pieno d'acqua, inverno ed estate, cui chiedevano di attingere acqua alcune povere famiglie nei momenti più disperati di siccità. Quando fu fatta la strada verso la montagna, molte famiglie andavano coi carri alla Valle a fornirsi con botti (ciastelade) l'acqua per abbeverare le bestie o per fare il bucato.

Angelo rimane a lungo a guardare le belle case intorno alla piazza, di tutte le forme, a tre piani, a due, a solai, con un solaio pregevole in legno ed un terrazzo adornato di fiori. Alcune sono rinnovate nella forma primitiva e nel colore con belle porte e finestre di pietra lavorata. Angelo volge i suoi passi dalla piazza verso Sud e fa il giro a emiciclo al paese nella parte di sotto. Vede sempre belle case rimodernate e abbellite di fiori. Comincia a capire come il paese ha potuto estendersi: la superficie dell'area su cui sorgono le case con una lunghezza media di circa 200 metri ed una larghezza media di 60 metri, ha i bordi che scendono rapidissimi verso le pareti rocciose della Val ad Est e quelle erbose verso el Rì ad Ovest.

Ma ritornato in piazza, si avvia verso la parte alta del paese attraverso la via strettissima e obbligata fra due case antiche, del "Nato" e dei "Tinoti", arrivando alla piazzetta della Chiesa di santa Maria e viene preso da meraviglia. Si accorge che la piazzetta, le vie intorno alla chiesa, alla scuola, al Municipio, sono tutte lastricate a cubetti di porfido rosso, bellissimo a vedersi e indistruttibile nei secoli. Il merito di questa opera che pose il lastricato di porfido nella piazza della chiesa e per la via Cornel fino, su, alla casa del Stimpfl è ancora una volta del Sindaco Zenner, che per circa 30 anni resse il Comune, e dei suoi Consiglieri.

Angelo alza gli occhi sulla vecchia casa dei Dottori (de Gottardi) e vede dipinta una sbiadita meridiana a sole del 1751 (1836). - altri affreschi e sculture sono sulle case di alcune famiglie benestanti del passato - Il Comune farebbe opera meritoria a farli restaurare subito, prima che sia troppo tardi, perché sono documenti importanti di come i nostri antenati esprimevano i segni della fede e di come misuravano il tempo. Prima del 1780 non c'era il campanile, non c'era l'orologio. Un momento. Angelo sente battere due sonori rintocchi di campana Alza gli occhi al campanile: sul quadrante del grande orologio le lancette dell'orologio segnano esattamente le ore 10.30 come sul suo orologio al quarzo. Come mai tanta precisione? L'orologio della torre è elettrico, governato da un recente meccanismo che funziona in pieno sincronismo col segnale radio, dono del benemerito signor Betta, nativo di Vervò.

 


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Note:
[1] I cubetti di porfido (digressione) Si tratta di quei cubetti che ormai lastricano le strade e le piazze di moltissimi paesi del Trentino-Alto Adige, molte piazze e vie di grandi e piccole città italiane. Il salone del porfido a Trento nel 1982 documenta l'esportazione di questo materiale in tutto il mondo. L'aeroporto (terminal) Kennedy di New York è pavimentato con porfido trentino, così pure la metropolitana di Parigi, la residenza di Burghiba a Cartagine in Tunisia sito proprio accanto alle rovine dell'antica storica città. Il giardino della villa per le vacanze di lady Diana e del Principe Carlo d'Inghilterra è pavimentato con porfido trentino che si estrae dai fianchi delle montagne sulla sinistra dell'Adige, oltre la catena del Roen e del monte Corno.