STORIA DI VERVÒ nei ricordi del maestro Francesco Gottardi e del prof. Giustino Nicoletti


Indice Prefazione Parte prima Nicoletti Giustino Angelo, il turista Pagina iniziale
Parte seconda Francesco Gottardi Capitoli: 1 2 3 4 5 Vervodium

Capitolo 2

Cap 2 - La storia del paese durante l'occupazione romana

2.1. - Arrivo dei legionari romani

Dopo la vittoria di Roma su Cartagine (II Guerra punica), i Romani si spinsero fino alle Prealpi, estendendo il loro dominio su tutta la pianura Padana occupata da tribù galliche. Una di queste, i Galli Cenomani, dominavano i territori compresi tra i fiumi Adda e Brenta, tra il Po e le Alpi Tridentine incluse. A loro si attribuisce la fondazione di Bergamo, Brescia, Verona (capitale) e Trento; come già s'è detto, essi godevano dell’alleanza e della protezione dei Romani.

La prima spedizione militare nel Trentino, comandata dal console Quinto Marcio Re, avvenne nell'anno 118 a. a. contro gli Stoni * che abitavano le Giudicarie, colpevoli di essere scesi a razziare nei territori del Garda e del Bresciano.

Più tardi, precisamente nell'anno 102 a. a., il proconsole C. Lucio Catullo si spinse, pare, fino a Trento, non per un'azione di forza contro questa popolazione, tranquilla e nient'affatto ostile a Roma, ma piuttosto per proteggerla dalle orde selvagge dei Cimbri che, superate le Alpi al Brennero, stavano scendendo la valle dell'Isarco, mettendo tutto a ferro e a fuoco.

2.2. - Prima invasione barbarica

I Cimbri, scesi dalle spiagge del Baltico nella provincia romana del Norico, dopo uno scontro vittorioso col proconsole Papirio Carbone, penetrarono dal passo alla Drava in val Pusteria. Giunti all'Isarco, invece di scendere per la valle, forse impauriti alla vista delle tremende gole montane, risalirono al passo Brennero e rientrarono in Germania. Quivi si associarono ai Teutoni, altra orda selvaggia, e assieme penetrarono nelle Gallie; vi scorazzarono in lungo ed in largo per ben dieci anni a danno di quelle popolazioni.

Quando ebbero ridotto quella fertile regione a terra bruciata, decisero di scendere in Italia a fare altrettanto, ma per vie diverse: i Teutoni dalle Alpi Occidentali, i Cimbri da quelle Centrali: passo Brennero. Questa separazione fu loro fatale, come vedremo più oltre.

I Teutoni, penetrati nella provincia Narbonese, affrontati dal valoroso console Caio Mario ad Aix (Acquae Sextiae), furono distrutti completamente, meno pochi, risparmati volutamente. Era l'Anno 102 a. c.

I Cimbri erano attesi a Trento dal console Caio Lutazio Catullo. Questi preparò le fortificazioni, sembra, sul Verrucca e sulle due sponde dell'Adige che fa congiungere mediante un ponte di legno, allo scopo di darsi vicendevole aiuto, nel momento cruciale dell'attacco del feroce nemico, la cui avanzata era annunciata da nere colonne di fumo di giorno e da sinistri bagliori di notte. Le popolazioni della Val d'Adige cercarono salvezza rifugiandosi sui monti ed entro le valli laterali.

I Cimbri, imbaldanziti dal facile successo, giunti a Trento, andarono contro la barriera formata dei legionari del console Caio Lutazio Catullo, che poterono resistere all'assalto proprio in virtù del ponte provvidenziale costruito sull'Adige. A questo punto, poiché ne avevabo compreso l'importanza e la funzione, i barbari tentarono di abbatterlo e vi riuscirono immettendo nella corrente dell’Adige una gran massa di legname abbattuto lungo le sponde, la quale urtò e fece forza contro i piloni del ponte, provocandone la caduta.

Visto il clamoroso risultato, com'era loro costume, i barbari alzarono altissime grida selvagge di gioia, preludio dell'imminente furioso assalto. I legionari romani, impauriti, presi dal panico, imposero al console la ritirata.

Così i Cimbri poterono passare; scesero nella pianura, risalirono la sponda sinistra del Po con l'intenzione di congiungersi ai loro commilitoni Teutoni che, ignorando quanto era loro accaduto, supponevano già penetrati in Italia. Infatti alcuni erano entrati, però come prigionieri, al seguito dell'esercito vittorioso di Mario, il quale era accorso in aiuto del collega Caio Lutazio Catullo*, che prudentemente seguiva a distanza l'orda dei Cimbri.

Il console Mario, prima di attaccare e abbattere il nemico fisicamente, da buon psicologo, lo volle indebolire moralmente. A tale scopo mandò liberi alcuni prigionieri Teutoni nell'accampamento dei Cimbri, ripromettendosi il più grande effetto dal racconto che quelli avrebbero fatto dalla tremenda sconfitta subita e della decisione che il terribile Mario, per mezzo loro, annunciava: - Tra poco, gli stessi Cimbri avrebbero avuto l'onore delle stessa fine.

I Cimbri, rimasti soli, perduta ogni speranza di vincere, nonché di potersi salvare, non avrebbero potuto che arrendersi a discrezione o votarsi allo sterminio. Da valorosi, bisogna riconoscerlo, preferirono il combattimento e la morte fino all'ultimo uomo. Fu una terribile carneficina: forse si salvò qualche mastino dei molti che lottarono accanitamente in difesa dei loro sfortunati padroni. Era l'anno 101 a. c.

Il primo tentativo d’invasione da parte dei barbari nordici era miseramente fallito, ma c'era d'aspettarsi da quella parte e da quella gente un ritorno di fiamma. Si aggiunga che le popolazioni retiche delle Alpi, bellicose ed irrequiete, costituivano una latente minaccia per le popolazioni della pianura.

Nell'anno 89 a. C. Roma concesse il diritto latino alle genti Trentine e nel 49 a. C., Trento viene elevata a Municipio romano.

Il console Lucio Munazio Planco guidò una spedizione punitiva da Trento contro i Reti dell'Alto Adige; li sconfisse nei pressi di Bolzano. Col bottino conquistato, fece erigere un tempio a Saturno, sembra, sul Doss Trento. Il confine fu spostato da Termeno a Merano e da Ora a Clausen, aggregando quei territori a Trento.

I Reti, vinti ma non domi, costituivano una permanente minaccia sul territorio trentino. Per mettere un freno alle loro scorrerie, l'Imperatore Augusto nel 23 d.c. mandò a Trento il delegato Marco Appuleio con una legione e con l'incarico di restaurare e ampliare le fortificazioni del Verrucca * e dei luoghi circostanti. Provocato da continue incursioni dei Reti ed anche dei popoli alpini della Valtellina e della Valcamonica, l'Imperatore, volendo liberarsi una volta per sempre da tali molestie e assicurare l'Italia da eventuali invasioni dei barbari del Settentrione, decise la conquista totale del sistema alpino, “baluardo creato da Dio, - dirà Dante, - tra noi e la tedesca rabbia” (allora non si pensava all’Europa Unita, ma ad un’Europa dominata da Roma).

Il piano era stato studiato anche da Giulio Cesare; il grande stratega aveva intenzione di conquistare tutto il territorio delle Alpi fino al Danubio e al Reno attaccandolo a tenaglia, dall'oriente e dall'occidente contemporaneamente; ma il pugnale repubblicano troncò la vita dell'ardito ideatore del grande progetto. L'Imperatore Augusto, uniformandosi alla strategia del suo grande zio, preparò un piano, meno ampio, ma sempre ardito e geniale.

L'impresa ardua e pericolosa esigeva un'accurata preparazione, truppe agguerrite e comandanti valorosi e ne affidò l'esecuzione ai suoi due figliastri Tiberio e Druso. Cesare Augusto aveva sposato Livia, moglie divorziata da Agrippa, adottando il figlio di costoro, Tiberio. Tre mesi dopo il matrimonio Livia ebbe il figlio Druso, probabile frutto dell'imperiale amante. L'imperatore ebbe cure paterne per ambedue i fratelli, ma la predilezione fu sempre per Druso. Tiberio, allo scoppio della guerra, aveva 27 anni e Druso 23; giovani, intelligenti, ardimentosi e forti, godevano tutta la fiducia dell'Augusto Genitore, il quale non fu deluso.

2.3. - La guerra Retica

2.3.1. - Preparazione e piano strategico

Mentre Tiberio dalla base militare di Lione sarebbe avanzato verso Oriente attraverso la Svizzera (Elvezia), Druso, contemporaneamente, da Trento, risalendo la Val d'Adige e passo Resia, sarebbe sceso al lago di Costanza, dove i due fratelli s'erano dati appuntamento.

I condottieri Romani, maestri nell'arte della guerra di conquista, prima di avanzare in territorio nemico, non mancavano mai di assicurarsi i fianchi da eventuali attacchi e la via della ritirata in caso d’insuccesso. Le popolazioni della valle del Noce (Anauni, Sinduni, Tuliassi, Vervassi) per quanto non si fossero mai dimostrati ostili ai Romani, erano pur sempre genti peregrine; cioè forestiere e, quindi, prudenza e precauzione esigevano che una forte copertura di truppe fosse dislocata lungo le montagne della Val di Non, dalla Rocchetta al passo Palade, per sorvegliarne i passi verso la Val d'Adige e le confinanti popolazioni pacifiche sì, ma delle quali era prematuro fidarsi.

Le località chiave da occupare a protezione delle truppe operanti in Val d'Adige, erano Vervò, coi passi Sella e S. Barbara, Romeno col passo Mendola e, terza, una stazione X ancora ignota, ma che logicamente non poteva mancare a custodia del passo strategicamente più importante, quello delle Palade.

Le guarnigioni destinate a presidiare le tre località suddette furono prelevate, certamente, dalla base delle operazioni Trento, dove stavano concentrandosi le legioni XII e XIV già arrivate e altre che stavano arrivando. L'itinerario non poteva essere che il seguente; Trento, Valmanara, Santel, Fai, Cavedago, Noce (guado), Tono, monte Scarezzo, Vervò, Predaia, Rio Verdes, Romeno, passo Palade.

A proposito, la tradizione locale di Vervò indica col nome di “strada romana” un passaggio che dallo Scarezzo scende nella Pongaiola per salire al paese di Vervò (conosciuta anche come strada della “Madona vecla”); il toponimo può essere nato dal fatto che tale strada fu percorsa dai Romani destinati alle località da presidiare. Del resto questa era la pista battuta dalle genti preistoriche nei loro rapporti commerciali tra il bacino del Garda e quello dell'Alto Adige.

Riguardo alla tradizione popolare della "strada romana" il Campi non ci crede e la classifica "un sentiero" insignificante scavato nella roccia. L'illustre archeologo deve essersi limitato a vedere la strada dagli spalti di S. Martino o fu male informato.

Altro che "sentiero insignificante". Divenne la strada principale, alla quale confluirono tutte le strade provenienti dal monte Malacchino, dalla montagna di Vervò ed era l'unica strada comunicante con la sinistra del Pongaiola e tale rimase fino alla fine del secolo diciannovedimo, quando fu sostituita dalla nuova strada attuale più comoda, che può essere percorsa da trattori e vetture.

Certo ci deve essere stato un motivo, se la tradizione è giunta fino a noi e non mi sembra strano, né illogico che il toponimo sia nato dal passaggio e dall'uso che ne fecero i soldati Romani nel primo tempo; è probabile che più tardi si sia preferito attraversare la Pongaiola più a valle, fra Toss e Dardine, per proseguire per Priò - Vervò con una deviazione per Tres(semita dei Zirodi direbbe don Paolo Zadra).

La guarnigione destinata a Vervò, appena giuntavi, occupò l'antico castelliere di San Martino. Ne avrà rinforzato le difese, vi avrà costruito l'accampamento e il vessilifero ne avrà preso possesso in nome di Roma con la formula di rito "Qui si sta ottimamente" ( Hic manebimus optime).

Anche le altre guarnigioni avranno raggiunto la loro destinazione nell'Alta Anaunia, completando la difesa sul fianco sinistro delle legioni che avrebbero operato in Val d'Adige. È certo che Druso prese questa precauzione prima di iniziare le ostilità e pertanto, con altrettanta certezza, si può fissare l'occupazione militare romana di Vervò tra gli anni 20 - 16 A. C.

Col tempo, sopra l'area del castelliere, i Romani costruiranno il "castrum Vervassium" dandogli il nome del villaggio. È errato, quindi, dire che Vervò è di origine romana; esso è, caso mai, di origine reto-gallica.

2.3.2. - Verso il combattimento e la vittoria

Nella primavera dell'anno 16 a. C., ultimati i preparativi e prese le ultime disposizioni, Druso si muove da Trento con le sue agguerrite legioni: un esercito poderoso sia per numero che per qualità di soldati. Avanza in Val d'Adige, occupa il castelliere Vetere * presso Egna e manda esploratori in Val di Fiemme; occupa Vadena, i castellieri di Mezzo e Firmiano e si fortifica sul pianoro di Caldaro; costruisce il famoso "Pons Drusi" che, dalla rocca di Firmiano, attraversa l'Adige e le paludi, facendo capo nei pressi dell'odierna Gries. Nel maggio dell'anno 15 a. C. passa all'attacco.

Vinta la battaglia di Bolzano, si spinge nella valle dell'Isarco, supera in aspri combattimenti la resistenza delle bellicose popolazioni asserragliate nei munitissimi castellieri delle due sponde. Raggiunge Vipitenum, il passo Brennero, scavalca la montagna del Giogo, scende in Val Passiria e conquista Merano. Riunite e rinforzate le legioni, risale la Val Venosta, passa il valico di Resia e discende nell’alta valle dell’Inn travolgendo ogni resistenza e raggiunge il lago di Costanza, dove il suo emulo fratello Tiberio, già arrivato, lo sta aspettando.

I due condottieri, riuniti gli eserciti, devono combattere altre aspre battaglie terrestri e navali sul lago per debellare i villaggi costruiti sulle palafitte (Arba Felis). Presso Lindau e Raichenau si concluse la vittoria sui Reti e sui Briganzi .

Il poeta Orazio, parlando dell'imprea di Druso, scrisse che la guerra per la conquista dell'Alto-Adige, per la fierezza degli abitanti e la terribile conformazione della natura, fu aspra e grande lo spargimento di sangue. I due valorosi fratelli non riposano sui conquistati allori, ma, riordinati gli eserciti, proseguono l'avanzata trionfale, conquistando la Vindelicia *, raggiungono e si fortificano sulla sponda destra del Danubio che, dopo le Alpi, diverrà il primo baluardo settentrionale dell'Impero. Druso continuò la guerra contro i Germani, ma perdette la vita in seguito ad un banale incidente: una caduta da cavallo, la rottura di un femore, la cancrena, la morte (anno 9 a. C.).

2.4. - Saggezza latina e buon senso montanaro

Chiusa la parentesi della guerra, durante la quale il presidio romano e la popolazione di Vervò ebbero il primo contatto, ritorniamo ad occuparci di loro, destinati a vivere lungamente insieme.

Il castelliere, abbandonato da lungo tempo dai nativi, doveva offrire ai suoi occupanti ben poche comodità e neppure quella sicurezza che le circostanze e il prestigio romano esigevano. La località, che aveva corrisposto tuttavia agli scopi militari e politici immediati, fu ritenuta indispensabile anche per l'avvenire e per questo, fu decisa la costruzione di un fortilizio che prese nome dal villaggio e si chiamò "Castrum Vervasium".

Qui, come in altri luoghi, i legionari avranno avuto bisogno dell'aiuto e della collaborazione dei nativi Vervassi. Fin da principio, le loro relazioni devono essere state cordiali, improntate da vicendevole rispetto e fiducia. Si può quindi affermare che, se il villaggio di Vervò fu provvidenziale per il presidio romano, altrettanto questo lo fu per la popolazione locale. Ambedue seppero trarre tutti i possibili vant aggi da una convivenza pacifica e comprensiva. Il paese poteva fornire tutti i prodotti e le materie necessarie e utili ai legionari, nonché le braccia per tutti i lavori ed i servizi da questi richiesti. La Gens dei Vervasses potè avvantaggiarsi presto e per lungo tempo di questa comunità di vita e di interessi con i Romani, assimilandone tutta la civiltà, lingua, religione, costumi, ordinamenti, leggi, arti, mestieri, ecc ..guadagnandosi così la simpatia, la stima ed i favori dei castellani e delle superiori autorità. I nativi appresero dai Romani anche la maniera di produrre e usare calce nelle costruzioni, cosa che prima non conoscevano. Nella costruzione del Castrum fu usata la malta di calcina. (Ruderi di muro di sassi calcina sono visibili lungo la stradina che porta al cimitero.)

La più antica delle fornaci per calce esistenti nella valle Pongaiola probabilmente risale all'epoca romana, costruita sulla strada romana, in fondo alla valle sulla sponda sinistra del torrente, il cui paiuolo fu usato ripetutamente per altre cotture di calce fino ai giorni nostri.

Di queste buone relazioni, frutto della saggezza latina e del buon senso montanaro, ne hanno certamente approfittato e anche abusato i paesani: attribuendosi diritti che ancora non avevano, perché privi della cittadinanza romana. Tutto ciò, naturalmente, poté accadere con il tacito consenso e la compiacente tolleranza delle autorità locali, complici le buone relazioni.

2.5. - La cittadinanza romana

Una situazione simile era avvenuta formandosi anche presso le popolazioni delle valli del Noce abitate dagli Anauni, dai Tuliassi, dai Sinduni e presidiate dai legionari romani. Finché le valli furono scarsamente abitate, le popolazioni poterono esercitare i diritti della caccia, della pastorizia, dell'agricoltura, della pesca liberamente e, data l'estensione dei terreni di cui potevano disporre, non avranno avuto motivo di contrasto coi vicini. Ma con l'avvento dei Romani i centri abitati aumentarono in numero considerevole, rendendo i loro rapporti sempre più difficili e le proprietà terriere sempre più contestate. Ai possessi delle singole comunità devonsi, ora, aggiungere quelli appartenenti di diritto all'Imperatore.

Un'altra grossa questione era venuta a conoscenza dell'Imperatore: la situazione della popolazione degli Anauni, dei Tuliassi, dei Sinduni non era ben chiara, ma molto incerta e confusa: una parte, sembrava appartenesse ai Trentini e come tale si professava; altra parte si considerava staccata; in fine la loro appartenenza era dubbia; alcuni si consideravano e agivano come fossero già cittadini romani e s'erano infiltrati nelle file dei pretoriani, dell'esercito, della magistratura, creando una situazione ingarbugliata che i Delegati Imperiali, mandati sui luoghi, non seppero risolvere. Dal memoriale del Delegato Giulio Planta, l'Imperatore Claudio comprese la necessità e l'urgenza di intervenire per risolvere tutte le questioni e le incertezze.

A tale scopo emette da Baia, alle Idi di Marzo dell'anno 46 d. C., il famoso decreto riportato dalla Tavola Clesiana, con il quale concedeva la cittadinanza romana agli Anauni, ai Tuliassi e ai Sinduni e convalidava tutti gli atti precedentemente compiuti e considerati illegali, e associava queste genti al Municipio di Trento. Claudio aveva saputo sciogliere il nodo gordiano nel modo più spiccio e radicale, inutilmente tentato da Tiberio e da Caligola, suoi predecessori.

Fino a quell’epoca le popolazioni della Val di Non erano cresciute ognuna per conto proprio, isolate, senza vincoli tra loro, senza leggi, senza ordinamenti. Adesso avranno leggi, ordinamenti; formeranno un popolo unito, ordinato, romano per lingua, per leggi, per costumi, per religione e ognuno potrà dire con orgoglio: "Civis romanus sum". – tavola clesiana -.

2.6. - Quattrocento anni di Pace Romana (PAX ROMANA)

Con l'acquisizione della cittadinanza romana, (46 d.c.) il villaggio di Vervò, che ospitava la guarnigione romana da oltre 60 anni, si affermò e consolidò una notevole importanza e prosperità. Ne fanno fede le are votive e le lapidi dell'epoca imperiale dedicate a divinità e personalità diverse le quali mostrano nella fattura accurata e costosa, che furono poste da persone ricche, agiate per lo meno, provenienti dal servizio militare e da pubblici impieghi.

Benché, in seguito all'apertura di nuove strade in fondo alla valle e attraverso la gola della Rocchetta (che divenne la porta principale della Val di Non), il paese avesse perduto il primato fin allora goduto, esso poté sostenersi economicamente e svilupparsi in virtù della permanenza della guarnigione romana, alla quale affluivano, dall'Erario statale le rimesse in denaro, che in gran parte andavano a finire nelle tasche dei contadini locali in pagamento di forniture diverse fatte ai legionari.

Se le autorità militari e civili ritennero conveniente mantenere in efficienza la Stazione militare Vervassium anche dopo le passate operazioni di guerra e dopo che i confini settentrionali dell'Impero furono portati e assicurati sul fiume Danubio, vuol dire che alla guarnigione del castello veniva assegnata, oltre ai compiti normali di presidio, la mansione importante di assolvere in tempo di pace ai compiti amministrativi e di giurisdizione territoriale sulla popolazione locale e vicinale: l'ordine, la sorveglianza, la difesa, la giustizia, le tasse (il raccogliere i doni – municipio).

Infatti è dimostrato che la convivenza delle due popolazioni sia trascorsa in piena armonia e tranquillità, dal principio fino alla fine, nel rispetto e nell'aiuto vicendevoli, nell'intimità familiare, come si può dedurre dalle iscrizioni lapidarie rinvenute sul posto, testimonianze sicure ed inequivocabili di un lungo periodo di pace veramente romana.

2.7. - La costruzione d'una seconda linea di difesa a S. Martino

La lunga e benefica pace romana, che, nelle nostre vallate, durava da oltre quattrocento anni, sta per essere turbata e messa a dura prova. Popolazioni barbare irrequiete premono ai confini d'Italia, sia dall'Oriente che da Settentrione.

Alle prime voci allarmistiche, alle prime avvisaglie le popolazioni dell'Alto Adige e del Trentino, prima esposte all'offensiva nemica, si premuniscono, come era logico, rinforzando le difese dei loro centri abitati.

Anche la guarnigione del Castello e la popolazione del villaggio di Vervò, era naturale che facessero altrettanto cercando con sollecitudine misure per la propria sicurezza.

Il fronte Nord del fortilizio era troppo lungo (150 m) per essere difeso efficacemente da una guarigione ridotta, ultimamente, a pochi soldati veterani. Il castrum costruito in fretta con materiali scadenti, come risulta dalle sue rovine, privo com'era di torri e di bastioni, non poteva offrire nessuna sicurezza e garanzia contro un eventuale assalto nemico. Sufficiente nel lungo periodo di pace, ora, davanti all'incombente pericolo d'una invasione barbarica, era necessario non solo rinforzarne le strutture, ma addirittura costruire ex-novo una seconda linea di difesa, più arretrata, e renderla inespugnabile con opportune e studiate opere efficienti, dietro la quale, in caso di bisogno, ripararsi e difendersi. A tale scopo ben si prestava la parte esterna del promontorio, cento metri più avanti, verso la Pongaiola.

Quivi, una provvidenziale strozzatura del terreno (30 m appena), indicava il punto strategico dove si poteva costruire il nuovo sbarramento, il quale doveva risultare costituito da una torre massiccia al centro e da due bracci di grossi muri che, innestandosi ad essa, dovevano spingersi fin sull'orlo dei precipizi laterali del Buson e della valle di Fanzim. Sollecitati dall'imminente pericolo sopra ricordato, gli abitanti del castello e del villaggio costruirono il nuovo fortilizio che si può riconoscere ancora al presente.

A distanza di 1500 anni la torre romana sta maestosa e solenne a testimoniare l'ultimo tentativo dei nostri legionari di fermare il corso inarrestabile della Storia. La torre non ebbe occasione di dimostrare la sua potenziale efficienza perché i temuti barbari si tennero lontani e non la misero alla prova.

2.7.1. - La torre romana

Essa fu costruita con criteri esclusivamente strategici in funzione di difesa della nuova linea, distante un centinaio di metri dalla prima, ritenuta non difendibile per diversi motivi. Nella costruzione furono usate pietra di calcare bianco scavate sul posto. Le pietre d'angolo della torre non sono state lavorate a punta e martello, ma solamente squadrate con la mazza. Quelle che compongono il muro sono tutte della stessa specie, non una pietra di altro colore, tutte cementate con ottima malta la quale, nel corso dei secoli, si è pietrificata. La torre non è stata intonacata né all'interno, né all'esterno e si presenta, ancora oggi, intatta con le sue pietre bianche esteriormente lavate dalla pioggia e spolverate dal vento, motivo per cui le si attribuisce i secoli che vanta, almeno 16.

Ecco alcuni dati tecnici della torre. La sezione orizzontale quadrata, alla base, misura esternamente, 3.50 m e internamente 2 m di lato; lo spessore dei muri è di 80 cm. La sua l’altezza originale doveva essere di 15 m circa e terminava in alto con quattro grandi finestre, una per facciata, ed era riparata da un tetto di legno piramidale (probabilmente a quattro spioventi). Essa sporge verso Nord con tre lati dai dai due bracci di muro, ai quali si allinea col quarto lato In quest'ultimo si apre una porticina bassa e stretta 0,70 m x 1,60 m che immetteva nell'interno della torre.

Quivi, ad un'altezza, convenientemente calcolata, s'aprivano nelle pareti a sera e a mattina due feritoie orizzontali una sopra l'altra a guardia e a difesa dei muri laterali esterni che, innestati alla torre, completavano lo sbarramento. Una terza feritoia, più in alto e verticale, s'apre nella parete nord, dalla quale si può dominare tutto il settore verso il villaggio. Mentre questa è ancora visibile all’interno e all’esterno, le altre quattro sono state esternamente coperte: quella a sera dal grandioso dipinto rappresentante san Cristoforo e quella a mattina, dalla costruzione della Cappella dei SS. Fabiano e Sebastiano, (opere coeve, sembrano del secolo XV). L'ultima ed estrema difesa risultava così inespugnabile.

Aggiungasi che sull'estremo limite, verso il rio Pongaiola, una via segreta, in parte scavata nella roccia, offriva in caso di bisogno, la possibilità di evadere dal fortilizio e mettersi in salvo. Il sentiero, raggiunto il piede della rupe, girando a sinistra attraverso l'orrido Buson, raggiungeva la strada romana in fondo alla valle, girando a destra, costeggiando le rupi della valledi Fanzim, si poteva risalire al villaggio fortificato di Vervò. Questi sentieri furono praticati come scorciatoia dai nostri montanari fino a cinquant'anni fa per il pascolo degli ovini o per recarsi al monte Scarezzo percorrendo un tratto della via della Madonna Vecla, l'antica strada romana. Il seguito il percorso divenne troppo pericoloso e fu abbandonato.

2.8. - La calata dei barbari e la fine dell'Impero

La temuta invasione barbarica, che suscitò tanto spavento nelle nostre pacifiche popolazioni, percorse altre strade e, purtroppo, si ripeté più volte ad intervalli di tempo da parte di tribù diverse, ma egualmente feroci e sanguinarie: Cimbri, Alemanni, Svevi, Goti, ecc ...

Le genti delle valli dell'Isarco e dell'Adige, più esposte all'offensiva e alla violenza degli invasori, cercarorno salvezza, rifugiandosi sui monti e nelle valli laterali. La Valle di Non, cittadella chiusa entro il cerchio provvidenziale delle sue montagne, poté evitare l'urto diretto, violento con le orde selvagge che, simili a fiumane impetuose, scesero verso le fertili pianure italiane, veementi, tutto distruggendo, compresa la città di Trento, sospinte dalla fame e dalla bramosia di terre, di case, di sole, di vino, di belle donne, di cui l'Italia era tanto ricca e doviziosa.

Certo che i Nonesi e con essi i legionari e gli abitanti di Vervò, avranno fatto buona guardia sui passi montani verso la Val d'Adige, pur astenendosi, prudentemente, da interventi provocatori per non tirarsi addosso il peggio; ogni reazione del resto sarebbe stata inutile e molto pericolosa. Ma se poterono salvare i beni e la vita, non poterono, naturalmente, evitare le disastrose conseguenze di fatti e di avvenimenti tanto disastrosi.

Durante la lunghissima lotta vi furono momenti in cui parve che, alcuni valorosi generali dei due Imperi (d’Oriente con Stilicone, Belissario, Narsete; d’Occidente con Ezio) riuscissero con sanguinose vittorie a fermare la ruota del fatale destino, ma quei valorosi furono ricambiati con la più nera e inumana ingratitudine dai rispettivi imperatori. Così l'Italia non ebbe né il suo Leonida, né la sua Termopili: rimase con la sua "ianua barbarorum" indifesa, la qual cosa suona ben diversamente.

Così il Colosseo romano, già in sfacelo da molti anni, cadde senza far rumore, e giacque. Il barbaro Odoacre, re degli Eruli, depose l'ultimo imbelle Imperatore Romano Romolo Augustolo e proclamò la fine dell'Impero Romano d'Occidente. Era l'anno 476 d.c.

Tramontata la dominazione romana e subentrate le dominazioni barbariche di Odoacre, dei Goti, dei Longobardi ed altri, scese oscura, impenetrabile la notte medioevale con le sue barbarie, con i saccheggi, con gli incendi, con le rapine: tutta una storia tristissima di rovina e di sangue. Vervò sopravvisse alle invasioni barbariche, si mantenne e si sviluppò entro o fuori la cerchia antica tanto da conservare la sua importanza tra i centri abitati in Valle di Non.


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