SOLDATI, PRIGIONIERI, CADUTI
persone di Vervò alla guerra  

Persone di Vervò e vicende di guerra -   di Piergiorgio Comai

Fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale non ci sono rilevanti notizie di partecipazione di singole persone alle vicende belliche. Nelle guerre che si erano succedute la comunità era chiamata a collaborare accogliendo gruppi di soldati delle retrovie. Si doveva fornire loro vitto e alloggio anticipando la spesa che in seguito sarebbe stata in parte rifusa. I disagi erano grandi e si temeva anche per i raccolti delle campagne. Inoltre la comunità doveva fornire uomini e carriaggi in appoggio alle varie operazioni militari. La chiamata a fare il soldato dal 1800 era fatta a sorteggio: ad esempio Vervò doveva fornire 5 militari. Di questo periodo ho trovato tre accenni di soldati morti nel periodo di ferma.

Francesi a trento

Giovanni Battista Marinelli(27/09/1772-11/09/1796), fu fatto prigioniero dalle forze francesi entrate in Trento il 5 settembre con altri tre bersaglieri. Napoleone il 31 agosto da Brescia aveva emanato un proclama col quale ordinava che “tutti i tirolesi che fanno parte dei Corpi Franchi presi colle armi alla mano saranno sul momento fucilati”. Il giorno 10 settembre fu emessa la sentenza per la fucilazione dei quattro bersaglieri tirolesi. Il giorno successivo (11 settembre) la sentenza fu eseguita. Furono sepolti nel cimitero di Sant'Apollinare di Piedicastello. L’espisodio è riportato nella conaca del conte Andrea Salvetti, console di Trento del tempo e ripreso nel libro di Alberto Pattini "La Guerra di liberazione del popolo delle valli di Non e di Sole...

fucile da tiro

kaiserjager Cristoforetti Pietro Giovanni ( 25/08/1816 - 04/05/1840)) di 23 anni svolgeva il periodo di ferma militare a Landeck come Kaiserjäger. Come si crede, annegò in un lago ove si era recato per lavarsi.

Gottardi Michele di Battista (17/07/1825 - 04/10/1848) partecipò alla prima guerra d’Indipendenza nell’esercito austriaco. Il comando militare del reggimento “cacciatori dell’imperatore” (Kaiserjäger) in data 25 ottobre comunicò al comune di Vervò che Gottardi Michele era morto il 4 ottobre 1848 nell’ospedale di Vicenza.

La prima guerra mondiale

Il Trentino al momento dello scoppio della Prima Guerra era parte dell'impero austro-ungarico come contea del Tirolo e gli uomini abili furono richiamati al servizio militare.

Da qualche tempo i paesani erano preoccupati per le notizie dell'assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e della sua consorte avvenuto a Serajevo il 29 giugno, giorno di san Pietro e Paolo, con la conseguente irritazione dell'Austria verso la Serbia e le minacce di guerra.

Era estate: a Vervò si badava alacremente ai lavori di campagna e alle faccende domestiche solite. Inatteso, il primo di agosto in mattinata, giunse un messo dell’imperiale regia gendarmeria di Mollaro recante dodici carte di richiamo destinate ai signori: Betta Arcadio (Panzin), Chini Giuseppe (Can), Conci Francesco (Tachi), Gottardi Alfonso (Nof), Gottardi Giuseppe (Tompio), Nicoletti Pietro e Pio (Perinoti), Nicoletti Giuseppe e Luigi (Zopi), Nicoletti Vigilio, Sembianti Damiano e Matteo (Matteo). E qualche ora dopo fu proclamata la mobilitazione generale dai 21 anni ai 42. La commozione fu grande e con apprensione si presagiva che ci sarebbe stata una guerra. Infatti il 28 luglio 1914 l'Austria aveva dichiarato guerra alla Serbia.

Soldati di Vervò

Vervò ha pagato un tributo di 18 soldati morti al fronte o per cause collegate alla partecipazione alla guerra.

soldati in Galizia

Molti di quelli che erano stati inviati sul fronte orientale furono  catturati e passarono una lunga prigionia in Russia. Il signor Matteo Sembianti ha tenuto un diario della sua dolorosa esperienza come pure il signor Francesco Gottardi (Zanco). Altri reduci riferivano di tanto in tanto i ricordi della prigionia. Io ricordo qualche battuta del signor Gottardi Cornelio (dottori) - “Russi sind gekommen, drei hundert Meter aufziehen”, di Mario Paternoster, di mio papà (di Vigo Cavedine) che mi ricordava il grande freddo dell'inverno in Siberia. La battuta di Cornelio ricorda l'imminente scontro con i battaglioni russi che avanzavano e l'ordine del tenente di preparare il fucile a spare mettendo l'alzo per la distanza di 300 metri. Nei vari racconti si ricavava un senso di riconoscenza verso le persone russe con le quali erano entrati in contatto per la loro ospitalità e condivisione. Renzo Francescotti ha raccolto nel suo libro “Italianski” le testimonianze di tanti trentini prigionieri in Russia. Fra il resto racconta diffusamente la prigionia di Mario Paternoster e di Luigi Chini (Cater) e mi ha concesso di riproporle.
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La vicenda di Mario Paternoster (pagina 80 del libro “Italianski”).

Mario Paternoster, classe 1894, di Vervò in Val di Non come Luigi Chini lavorò a lungo coi bolscevichi.sui Carpazi Arruolato nel 2° reggimento Kaiserjäger era partito dal suo paese il 27 ottobre 1914 ed era stato mandato sulla linea del fuoco della Galizia, presso Tarnov, il primo gennaio dell'anno seguente: «Ci furono mucchi di morti: dei trecento della I comp. del 2° reggimento mandati all'assalto il 18 febbraio, ritornammo in diciassette. Così rifecero la compagnia e, per un mese, riposammo nelle retrovie; poi ci mandarono al fronte, ancora sui Carpazi. Di nuovo eravamo nel pieno del fuoco a combattere: ricordo che un giorno andammo a bere a un fiumicello, ma non potemmo bere perché era divenuto rosso di sangue. Il 2 giugno, durante la notte, i russi riuscirono a scavare una contro trincea a una ventina di metri dalla nostra linea.

campi GaliziaQuando la mattina ci accorgemmo che i russi ci potevano bombardare perfino con le bombe a mano ci rifiutammo di sparare, anche se l’ordine era quello di battersi fino all'ultimo sangue. Li aspettammo passivi e i russi vennero avanti addirittura credendo che le trincee fossero state abbandonate. Così quattro reggimenti (circa ventimila uomini) tutti `tirolesi' (cioè trentini e altoatesini) vennero fatti prigionieri. I russi credettero che ci fossimo arresi per fame; così, poche ore dopo la cattura, ci fecero trovare i loro cavalli carichi di pagnotte. Dopo un'ora di viaggio attraversammo il fiume San; marciammo per otto giorni attraverso il polverone per arrivare al ponte di Przemysl dove dormimmo una notte.Przemysl

Al confine tra Polonia a Russia facemmo la quarantena. I russi a seconda di ciò che sapevamo fare ci fecero scegliere un lavoro: io scelsi di fare ciò che sapevo fare, ossia il contadino. Fummo portati nella zona di Saratov, sul Volga; la famiglia di contadini presso cui abitavo stava abbastanza bene: avevano sei cavalli, altrettante mucche, una trentina di pecore e molte oche. Ci vestivamo con stoffa di lana greggia tessuta a mano, come gli altri contadini. I cappelli e le calzature venivano fabbricati con del feltro fatto in casa, mediante lana, olio fumante e stampi.

Era un lavoro da uomini. Le donne invece filavano la lana e la canapa tessendo la stoffa dei vestiti da lavoro. La stoffa per i vestiti della festa veniva invece comperata. Rimasi lì fino al 1917 quando passai al Comando della città dove mi utilizzarono a costruire edifici per uffici pubblici; ricevevo trenta copechi al giorno. Al mercato con dieci copechi al giorno si mangiava bene comprando i cibi già cotti sulle bancarelle: pesci, polli, carni arrostite di pecora ... Si poteva mangiare a volontà. Si arrabbiavano anzi, perché dicevano (quelli chc ci vendevano la roba) che non mangiavano a sazietà. Strano e generoso popolo questi russi! Avevo imparato a parlare il russo e vestivo come loro. La gente era buona, col cuore in mano: mi avevano insegnato pazientemente a parlare la loro lingua, tanto che molti mi chiedevano se ero russo.

All'indomani della rivoluzione d'ottobre la maggior parte dei prigionieri trentini e triestini aveva fatto domanda per ritornare in Italia. In quattro del nostro paese decidemmo invece di rimanere: oltrettutto si diceva che se l’Austria avesse saputo che noi eravamo passati con gli italiani, ci avrebbero confiscato i beni. Quelli che accettarono di rimpatriare furono invece spediti nell’Estremo Oriente. Divenni amico di Policarpo Prantil, da Priò, un paesetto a pochi chilometri dal mio (è morto, poveretto, qualche anno fa); io facevo il cuoco dei prigionieri.

Un giorno lui si ammalò gravemente di febbre maltese; andai nella spezieria per avere delle medicine. Piangevo perché non avevo soldi per prendere le medicine. Ma me le diedero lo stesso. Lo curai e lo salvai.

Quando scoppiò la rivoluzione d'ottobre c'era una miseria tremenda. Conobbi un cosacco il quale mi disse che c'era bisogno di venti uomini per lavorare con i bolscevichi. Accettammo in venti italiani: tra gli altri c'erano Cornelio Ciccolini della Val di Sole, Sigisimondo Detassis di Lavis, Alfonso Gottardi da Cembra. prigionieri al lavoroLavoravamo in un enorme magazzino stracolmo di semi di anice, i sacchi venivano spediti per la lavorazione, credo per essere distillati. Poiché sapevo bene il russo mi fecero intendente. Ma l'ambiente era malsano: riempiendo e trasportando i sacchi c'era sempre un gran polverone. Così i bolscevichi ci assegnarono un altro lavoro, parte in un mulino, parte ad imballare fieno, parte a lavorare alle strade. Io lavoravo alle bestie che venivano inviate a Mosca; le avevano requisitc per inviarle nella capitale dove si moriva di fame. Mi avevano spostato verso Mosca, a ventiquattro ore di treno dalla capitale (in quel grande paese, ventiquattro ore di treno era un viaggio abbastanza breve). I bolscevichi ci trattavano bene: mangiavamo assieme a loro; minestra di patate, di crauti, salame cotto, pesci, carne bovina; ricevevamo la stessa paga, da tre a sei rubli al giorno.

In questa città che si chiamava Alekscevka (provincia di Samara) rimasi fino alla fine della guerra, sempre lavorando per i sovietici. Eravamo pieni di pulci e di pidocchi, che ci avevano fatto compagnia per tutta la guerra a la prigionia; davamo la caccia ai pidocchi stirando i vestiti a bruciando quei parassiti col ferro da stiro. Del resto era uno spettacolo consueto passare per le strade a vedere le donne sedute all'aperto the spidocchiavano se stesse e i loro bambini, uccidendo i nidi di pidocchi con il martello. Fu in quelle circostanze che nacque la canzone dei prigionieri trentini the dice: `Chiusi in baracca / su di un letto di legno / ove di pulci un regno / e di pioci ancor …”.

Partimmo per il viaggio di ritorno il giorno di Sant'Andrea, il 30 novembre: fu un viaggio interminabile. Il 21 gennaio 1919, giorno di Santa Agnese, ero finalmente a casa, con 500 rubli che mi erano stati cambiati in mille corone da un ebreo russo».

La vicenda di Luigi Chini (Cater)

Per evitare le brutture della guerra più di un soldato trentino tentava di autolesionarsi e darsi prigioniero alla prima occasione. Tomaso Zanetti ricorda: «Da piccolo il prete ci diceva sempre: Un'anima sola si ha: se si perde, che sarà? Io aggiungo: anche un corpo solo. Così mi diedi prigioniero dopo un giorno di guerra ... ».

Luigi Chini“ Il signor Luigi Chini raccontò a Renzo Francescotti in tutta sincerità di essersi autolesionato. (foto al museo di Rovereto)
Iniziai il servizio di leva nel 1912: ero nel 3° reggimento Kaiserjäger V Compagnia di stanza a Rovereto. La ferma durava allora tre anni. Così mentre ero di leva scoppiò la guerra e fui inviato in Galizia. Partimmo l'8 agosto e giungemmo in Galizia il 14. Il giorno della festa dell'imperatore (mi pare fosse il 18 agosto) ci fecero assistere alla messa e ci diedero l'assoluzione generale. Esattamente un mese dopo fui ferito sul fiume San: su una sponda eravamo noi, sull'altra i russi. Alcuni russi erano riusciti a passare il fiume: li attaccammo. Come ho detto io rimasi ferito. O meglio, ora lo posso anche dire, fui io stesso a ferirmi: mi misi le pezze dei piedi attorno alla mano e mitrincee in Galizia sparai a un dito. Ne avevo abbastanza della guerra. Tra noi italiani era un caso abbastanza frequente; uno sparava alla mano dell'altro che poi gli rendeva il favore. I Tedeschi ci dicevano sempre: - Chissà perché voi italiani rimanete sempre feriti alle mani e noi alla testa! – Finii in un ospedale per feriti leggeri, in un castello: stavamo benone.

Dopo cinque mesi mi fecero ritornare a Trento; qui lavorai coi prigionieri a costruire ponti, a minarli, a piantare frizze (pali appuntiti conto la cavalleria) lungo l'Adige. Ritornai in Galizia alla metà del 1915. Nell'assalto del 2 giugno io rimasi prigioniero. I russi mi utilizzarono nel governatorato di Zaratov, nelle costruzioni. D'inverno lavoravo con i contadini, con legname, nella stalla. Tutti ci trattavano bene. Quando scoppiò la rivoluzione continuai a lavorare in campagna d’inverno; d’estate lavoravo coi bolscevichi a costruire scuole, edifici pubblici. Tornai al mio paese con i miei due compaesani, Cornelio Gottardi (Dotori) e Cristoforo Gottardi (Toflin), mettendoci in viaggio alla metà di novembre del 1918; ai primi di dicembre. Dopo sette anni di soldato, di guerra e di prigionia, ero di nuovo a casa ».

La poesia dei prigionieri di guerra in Siberia
(Siberia, 1914 - 1918, Trascrizione R. Dionisi)casa Siberia

Siam prigionieri,/siam prigionieri di guèra /siam su l'ingrata tèra / del suolo Siberian. Ma quando, ma quando /la pace si farà / ritorneremo contenti,/ dove la mamma sta. Chiusi in baraca / sul duro lèto di legno, fuori tompèsta di fredo, / e noi cantiamo ancor. Ma quando, ma quando …. Siam sui pajoni,/ siam sui pajoni di legno,/de pulzi quasi un regno / e di piòci ancor Ma quando, ma quando …. Siam prigionieri,/ siam prigionieri di guèra / (tuti) senza ghevèra,/ nel suolo Siberian. Ma quando, ma quando / la pace si farà / ritorneremo contenti,/dove la mamma sta.

Sui monti Scarpazi

Romania 1914-1918 – In Romania nel 1917 fra i giovanissimi trentini della classe 1899, arruolati in un reparto dell’esercito austriaco, nacque questo triste canto. "Scarpazi" è la storpiatura di Carpazi

Quando fui sui monti Scarpazi Monti Carpazi
“miserere” sentivo cantar.
T’ho cercato fra ‘l vento e i crepazi
Ma una croce soltanto ho trovà.

O mio sposo eri andato soldato
per difendere l’imperator,
ma la morte quassù hai trovato
e mai più non potrai ritornar.

Maledeta la sia questa guera
Che mà dato sì tanto dolor.
Il tuo sangue hai donato a la tera,
hai distrutto la tua gioventù.

Io vorei scavarmi una fossa,
sepelirmi vorei da me
per poter colocar le mie ossa
solo un palmo distante da te.

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