La rivolta dei contadini in Val di Non
vista, immaginariamente, dai vicini e abitanti di Vervò d’allora.

Prefazione

L’inizio del secolo XVI vede nascere, crescere e svilupparsi il movimento della riforma protestante come reazione al dominio assoluto del potere ecclesiastico e feudale che si permettevano soprusi e indifferenza verso le categorie sottoposte, borghesia, artigiani, contadini. Come effetto collaterale di questo pensiero critico le classi più umili e i non privilegiati, che versavano in grandi difficoltà, diedero avvio a forti proteste e violente rivolte incominciate nella Slesia che si estesero in altre regioni della Germania per arrivare fino a noi. Siamo al tempo di Bernardo Clesio. Navigando in internet sono riuscito a trovare molto materiale in merito. Al posto di raccontare quelle vicende in modo ordinato e ho pensato di riviverle come fossero notizie che arrivano e che si diffondono fra le persone della comunità di Vervò del tempo. Nei documenti d’archivio locali non ci sono dati che facciano riferimento alla rivolta dei contadini del 1525, pertanto la diffusione di notizie nella comunità di Vervò è del tutto immaginaria pur utilizzando nomi di persone di quel tempo. Per una maggiore comprensione e completezza ho collegato i vari momenti di vita paesana con il racconto degli avvenimenti storici del tempo.


Vervò a inizio secolo XVI

La vita a Vervò si svolgeva tranquilla utilizzando le risorse della campagna e della montagna. Accanto ai possedimenti individuali o allodiali delle singole persone era estesa la proprietà comune e le proprietà delle chiese. Non esistevano servi della gleba perché tutti erano stati affrancati. La montagna e ampie zone di bosco e di campagna erano gestiti dalla comunità per il bene dei vicini e degli abitanti. Gli antichi diritti feudali dei signori di castel Thun erano stati affrancati già da tempo. Accanto ai sindaci e giurati della comunità esistevano i sindaci della chiesa di San Martino, di Santa Maria e della cappella dei santi Fabiano e Sebastiano. Questi gestivano le proprietà delle singole chiese provenienti da varie donazioni avute con l’impegno di celebrare messe in suffragio delle anime dei donatori e per essere ricordati nel tempo. Ogni anno erano rinnovate tutte le cariche della magnifica comunità e delle chiese e, pubblicamente, si passava alla consegna e alla verifica dei conti.

All’inizio del 1500, Padre Francesco de la Chiesa, vescovo drivastense, vicario generale del principe vescovo Uldarico Lichtenstein, riconsacrò la chiesa di Santa Maria nel centro del paese che era stata ammodernata e ingrandita con tre altari. Nel 1513 la comunità ottenne il privilegio di avere un cappellano assicurandogli il sostentamento pur confermando gli impegni con la chiesa madre di Torra e col suo pievano. Il primo cappellano fu Lodovico figlio del defunto Nicolò Albertelli.

Il 7 agosto 1517 la riunione dei vicini istituisce la carica del regolano maggiore per punire i disobbedienti quando non si sottomettevano alle decisioni dei regolani e dei giurati ordinari poiché questa autorità mancava nella propria regola: sarà di anno in anno il sindaco di San Martino. Le uniche questioni che angustiavano la magnifica comunità erano i rapporti con i vicini per i confini e diritti di pascolo.

Si può dire che a quel tempo Vervò poteva gestirsi con una discreta autonomia seguendo le disposizione della loro antica regola. Può darsi che qualcuno dei vicini temesse delle regole più vincolanti rispetto al passato e maggiori contribuzioni a seguito delle turbolenze in atto e delle guerre fra l’imperatore Carlo V e la Francia per l’egemonia in Europa.


Eco in Vervò di avvenimenti dalla Germania

Nella primavera del 1518 il notaio Enrico de Ballesteri di Tres è venuto a conoscenza di importanti eventi dalla Germania. Passando a Vervò per stendere un atto notarile, ne parla con i sindaci di Vervò e il cappellano di Vervò. Racconta:

Il frate agostiniano Martin Lutero Wittembergera indignato per l’immorale vendita delle indulgenze che stava avvenendo nei territori tedeschi. Dietro versamento di adeguata somma di danaro la lettera di indulgenze assicurava che qualsiasi colpa era condonata anche senza pentimento sincero, Il denaro raccolto in molte diocesi era inviato a Roma dove stava sorgendo la maestosa basilica di San Pietro in Vaticano. Dopo matura riflessione abbozzò una proposta di riforma espressa nelle 97 tesi esposte sul portone della chiesa del castello di Wittemberg lo scorso ottobre e inviate al Papa, all’arcivescovo di Magonza e ad altri studiosi. Fra queste ricordo:

“Mi sembra che da noi questo non succeda” - dice il cappellano Lodovico e anche gli altri confermano le sue parole.

La rivolta dilaga

Il papa Leone X condannò il pensiero che stava sviluppando Martin Lutero e molte di queste tesi, cercò di farlo ritrattare inutilmente e infine lo scomunicò con una bolla pontificia del 1521. In Germania, però, la riforma proposta ebbe grande diffusione e seguito. Il potere aristocratico e del clero era insopportabile oltre che per i contadini anche per gli artigiani, la borghesia e i nobili minori. Accanto a una riforma religiosa era sentita l’esigenza di una riforma sociale. Alla testa di questo movimento si mise Thomas Müntzer, prete riformatore. Il movimento agiva in concreto per reclamare le loro richieste di giustizia trovando giustificazione nelle sacre scritture per l’abolizione delle disparità fra le classi sociali. Scoppiarono in breve azioni violente di rivolta contro nobili, clero e conventi, ma l’esercito dei signori riuscivano a reprimerle nel sangue (Lega Sveva). Alcuni capi o ispiratori della ribellione, prepararono delle richieste per giungere a una pacificazione ed evitare ulteriore spargimento di sangue.

Martin Lutero era interessato soprattutto alla riforma religiosa delle coscienze e riteneva normale che il popolo accettasse il principio di autorità. In alcuni scritti del maggio 1525, di fronte allo spargimento di sangue, saccheggi e incendi, pur condividendo i motivi del dissenso, si dissocia pubblicamente condannando l’arcidiavolo (Thomas Müntzer) che ne è l’ispiratore. Ricordando, fra altre argomentazioni, le parole «date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio» invita i rivoltosi a piegarsi alle disposizioni dell’autorità. In caso contrario ritiene giusta e doverosa la repressione con la forza.

Tuttavia i promotori della ribellione ritengono fermamente di essere fedeli alla religione che predica fratellanza e non divisione di classe. Ricordando alcuni passi della Bibbia che narrano le lotte per la conquista della Palestina, ritengono giustificata anche la propria violenza per liberarsi dal giogo feudale.

Nei primi mesi del 1925 anche da noi si diffondono le notizia delle rivolte nei villaggi dell’Alto Reno, dell’Alto Danubio e della Foresta Nera. Ebbe grande diffusione la lettera dei 12 articoli ai nobili e al clero che riassume le rimostranze e le richieste che salgono dal basso.



Nota: Rifacendosi alle idee di Müntzer, il predicatore Christofer Schappeler e il pellicciaio Sebastian Lotzer riassumono in una lettera di 12 articoli le richieste del loro movimento e le pubblicano a Memmingen



All’inizio di maggio Un gruppetto di uomini si ritrova sul sagrato della chiesa di santa Maria.

Leonardo de Gottardis dice: “Corrono voci che già dallo scorso anno in Germania i contadini negano l’obbedienza alle autorità di villaggi e di città, assaltano e depredano chiese, conventi e le dimore dei signori.”
Curioso, Baldassare Bertolini si domanda: “Sento parlare di una lettera con richieste per trovare un accordo fra popolo e autorità. Cosa contiene?”.
Il notaio Antonio Fume, che era stato a Cles per i suoi impegni, risponde: "È vero che gran parte dei contadini della Germania è in rivolta. Per fermare le violenze è stata scritta alle autorità una lettera di rimostranze con delle precise richieste. In riassunto sono queste:


Uno dei presenti esclama: - "Molte di quelle cose noi le abbiamo già. Certo sarebbe bello gestire noi le decime, scegliere il pievano, avere diritto alla caccia, non dover sempre avere l’approvazione delle nostre decisioni da pare del nostro pievano e del reverendo Vescovo".
Il notaio aggiunge: "Anche Martin Lutero approva queste rimostranze e le fa presenti ai principi e signori feudali. Tuttavia invita i contadini, a essere pazienti e a non usare mezzi violenti per strappare delle concessioni".
Giovanni de Zanetis, che veniva da Trento, aggiunge di aver sentito che la rivolta si è estesa nel vescovado di Bressanone. “Pensate, - dice – un certo Peter Paßler di Anterselva è stato catturato e condannato a morte a Bressanone il 9 maggio per aver rivendicato certi diritti di pesca. I rivoltosi, guidati da Michael Gaismayr di Vipiteno riescono a liberarlo. Un grande numero di contadini ha occupato l’abbazia agostiniana di Novacella devastando e bruciando i registri e libri contabili e saccheggiato il palazzo vescovile di Bressanone. Gaismayr è proclamato capitano dei contadini in rivolta. Sono cose veramente gravi. È dura sopportare tutte le tasse, decime, gabelle, taglioni: Si vede che la condizione dei contadini della Germania e anche in molti villaggi del vescovado di Bressanone e di Trento è più dura e violenta che qui da noi. Però io non parteciperei a violenze come quelle che ho sentito".

La rivolta in Trentino

Intanto le ribellioni e le violenze si estendono anche e nelle vallate trentine e nella città di Trento. Le notizie sono preoccupanti: vari castelli in Valsugana e in Val di Non sono assaliti e non riescono a difendersi. Il primo castello caduto in mano della rivolta è quello di Visione dei Thun occupato da una settantina di persone dalla parte di Mezzocorona e Mezzolombardo.

Bernardo Clesio, che si trovava alla dieta di Ratisbona in Germania come consigliere di Ferdinando conte del Tirolo e Arciduca d’Austria, messo al corrente dei gravi avvenimenti, partì in tutta fretta per raggiungere Trento a organizzare la difesa del suo principato. Fece chiamare i capi della rivolta e tentò di far leva sul rispetto dovuto all’autorità e li esortò al ravvedimento (Mariani). Essi dichiararono di non desistere dalla loro forte protesta se non dopo che avranno avuto un esauriente accoglimento delle loro richieste per sollevarsi dalla triste situazione in cui versavano. I cittadini stessi erano in rivolta e spogliarono la casa capitolare ripiena di ogni sorta di derrate per dividerle fra i poveri. Bernardo Clesio Il Clesio, resosi conto della gravità della situazione e del pericolo personale, il giorno 16 maggio lasciò il governo della città ai consoli e affidò la difesa della città ai luogotenenti conte Francesco di Castellalto e Giorgio Frundsberg con le loro milizie. Quindi lasciò la città con i suoi consiglieri da Trento rifugiandosi nella rocca di Riva del Garda. Il territorio di Riva e tutte le Giudicarie gli erano rimaste fedeli; di qui chiese aiuto a Ferdinando arciduca d’Austria. Anche diversi prelati o ricchi nobili si rifugiarono in altre città italiane col meglio dei loro averi. Andrea del Borgo reggitore di castel Denno nutre dubbi sulla possibilità di resistere ai contadini in rivolta e decide di mandare sua moglie a Verona. Contemporaneamente i rivoltosi dell’Alto Adige e del Trentino stanno preparando una riunione da tenersi a Merano alla fine di maggio per concordare le richieste irrinunciabili nel tentativo di trovare un accordo con nobili e clero.


Ma vediamo come arrivano le notizie a Vervò.

Verso mezzogiorno giunge da Taio un messaggero, un certo Bernardino. Ferma i contadini che venivano da campagna annunciando importanti comunicazioni. Tra di essi c’è il saltaro, i regolani e altre persone. Con foga proclama: “Mi manda il comitato di Taio per farvi sapere che anche in Val di Non sorgono numerose rimostranze contro i privilegi e l’operato dei vari signori che riscuotono tasse esose e anche contro i pievani più interessati alle decime, elemosine e al denaro che alla cura delle anime. Nel distretto di Bressanone sono già avvenuti fatti violenti contro le dimore dei nobili e del clero, senza risparmiare i conventi. Su iniziativa di Michael Gaismayr ed altri, per cercar si trovare una via d’uscita alla violenza, è convocata una consulta di contadini tirolesi e trentini a Merano per esporre le proprie lagnanze e stabilire delle legittime richieste da sottoporre alle autorità. Questa è un’occasione per inviare anche un vostro rappresentante”.
Si apre un vociare di commenti e pare che la proposta non susciti grande entusiasmo. Qualcuno sbotta: “Era ora che succedesse qualcosa; perché dobbiamo solo obbedire?”.
Un altro chiede al messo: “Hai qualche altra notizia per capire se poi sarà una cosa utile?”
Risponde: “L’arciduca Ferdinando d’Austria, fratello dell’imperatore Carlo V, ha convocato, per il 18 giugno ad Innsbruck, una dieta di tutti i ceti della contea ad esclusione dei prelati, per trovare direttamente un accordo. Proprio per questo motivo la riunione di Merano ha grande importanza per preparare le nostre richieste.”.

La dieta di Merano

Ha inizio la dieta di Merano promossa da Gaismayr per richiedere al reggente della Contea del Tirolo, l'arciduca Ferdinando, una serie di concessioni da concordare con tutti al fine di far cessare le violente rimostranze. Fra queste figuravano:

Il vescovo Bernardo Clesio e l’arciduca Ferdinando cercarono inutilmente di impedire la riunione di Merano che si apre il 25 maggio alla presenza di tutti i delegati delle comunità insorte, sia trentine sia tirolesi. Intanto la situazione è molto confusa e turbolenta nelle valli del Noce, in Valsugana, a Trento e dintorni. Si susseguono riunioni dei rivoltosi per decidere il da farsi e non mancano minacce a chi vuol chiamarsi fuori. Sono inviate a Trento le dissociazioni di alcune comunità con attestazioni di fedeltà al principe vescovo: fra questi ultimi i sindaci di Banco, Rallo, Nanno, Tuenno, di Cles e tutti i sindaci della pieve di Ossana.

La dieta di Merano si conclude con la stesura di 64 articoli da sottoporre all’approvazione dell’arciduca Ferdinando dimostrando fiducia nei suoi confronti. Francesco Piloni di Cles, detto Cleser, impiegato alle miniere in val dei Mocheni, traduce in italiano il testo delle rivendicazioni scritto in lingua tedesca e si adopera per diffonderlo con impegno. Passa nei paesi attorno a Pergine, a Piné e in Valsugana per spiegarlo. Minatori e contadini accolgono favorevolmente il contenuto dei 64 articoli e proclamano il Cleser capitano del popolo. Sarà uno dei delegati per la dieta di Innsbruck. Intanto, su insistenza dei consoli, il vescovo Bernardo Clesio ritorna a Trento per controllare direttamente la situazione. La maggioranza della popolazione cittadina è favorevole anche perché teme l’occupazione della città da parte contadini del contado sempre più insofferenti e arrabbiati.



Nota: Il 26 maggio del 1525, il notaio Cristoforo Busetti invia al suo padrone, il conte Sigismondo Thun, una prima, accorata descrizione degli avvenimenti: «Sappia signoria vostra qualmente le cose, da poi la partita de signorie vostre fin qua, hanno male proceduto: levandose a populo tuti li populi de Val de Non e de Sole, exclamando contra li magnifici zentili homini, castelani e preti et non tanto in queste vale quanto in Longo Atise et in la citade de Trento, sforzandose de voler metere a sacho et a botino li beni de li castelli et populi, digando che ogni persona dovesse botinare in le sue pievi li preti e li zentili homini et se non botinavano eran menazati dal resto de populi che sarano sachezati lori. Per tanto el ge stato assai contrasto». Da http://storiaterritoriotrentino.fbk.eu/node/97 (fondazione Nruno Kessler)



A Vervò la comunità è impegnata a risolvere questioni dei confini con la comunità di Priò.

Il giorno 12 giugno Ambrogio di Priò viene a Vervò per capire le proteste di Vervò sul non rispetto dei confini sul monte Scarezzo, Vanasco e in Cros. Si trovano coi saltari e i regolani in casa di Leonardo Marinel. Era al corrente degli ultimi sviluppi della dieta di Merano.

Con entusiasmo racconta che la consulta di Merano si è conclusa con 64 articoli importanti rivolti soprattutto all’arciduca Ferdinando. Essi contengono la richiesta dell’abolizione del dominio temporale dei vescovi e delle servitù feudali, del rinnovo dell’amministrazione giudiziaria e di avere maggior cura per i poveri. Non mancano, infine, indicazioni di tipo morale ispirate all’ideale della semplicità evangelica, richieste di abolizione delle rendite ecclesiastiche (le decime) o un loro uso per il bene comune e un migliore servizio ai fedeli. Ambrogio informa che l’arciduca ha convocato una dieta a Innsbruck per il 18 giugno per capire la situazione e trovare un rimedio senza la violenza di tumulti, e assalti. Saranno discusse le richieste e le proposte da parte di tutte le classi sociali, ma senza i prelati. Nelle riunioni di vari delegati tenute a Banco e a Taio sono state concordate le richieste particolari della Val di Non da presentare a Innsbruck, ad esempio:

I presenti di Vervò ascoltano, capiscono che in valle ci sono situazioni difficili, ma paiono poco interessati.

Ambrogio sbotta: «Vedo che voi qui, non siete affatto interessati. Mi rincresce che nelle varie riunioni per sollecitare migliori relazioni con il potere dei rappresentanti del Vescovo in valle e meno obblighi e tassazioni non ci sia un vostro rappresentante. ».
«Che vuoi? – replica mastro Simone fabbro - Noi siamo abbastanza autonomi e in buoni rapporti con i conti Thun. Mi pare che anche Cles e i paesi della sponda destra del Noce non intendono portare avanti una forte protesta.».
«Sì, è vero. - riprende Ambrogio, - Anche la bassa Valle del Sarca e le Giudicarie sono fedeli al principe vescovo e la Val di Fiemme sta trattando per conto suo.».
Tomeo de la Francisca chiede: «Vedo, Ambrogio, che sei al corrente dei fatti. Raccontaci qualche episodio di rivolta.»
"Forse sapete già che il Castello di Visione è stato occupato da una settantina di uomini armati salendo da Mezzocorona alla metà di maggio. Contro tutti i castelli ci sono stati tentativi di assalto. Il castello di Cles è occupato pacificamente dai contadini con loro delegati. Bernardino di Castelfondo scende a patti con i suoi sudditi per salvare le cose preziose del castello che voleva trasportare al più sicuro castello d’Altaguardia. Fuori dalla valle le proteste, specie in Valsugana, sono vigorose e si manifestano con aperte azioni di disobbedienza: non badare ai divieti di pesca e di caccia, a prestare servigi gratuiti, a consegnare le decime. A Pergine il Cleser guida la rivolta, si saccheggia la canonica, e alla locanda dell’Orso Bianco esclama: «Se mai più il vescovo de Trento sarà in segnoria temporal, taieme el naso.».
I presenti ascoltano curiosamente, ma non paiono disposti ad azioni clamorose di rivolta.
Marino Simbiant dice: «Nel passato eravamo più liberi di decidere delle nostre cose, ma pensiamo di farci valere anche senza unirci alla rivolta, come fanno in parecchi paesi “de là da l’aqua” (sulla destra del Noce). Andiamo avanti per discutere sugli sconfinamenti sul nostro monte Scarezzo.».
Giacomo Berlai aggiunge: “Ieri ero a Cles ed ho saputo che anche Federico Lanzaroti sindaco della pieve di Livo con altri del luogo si è dichiarato contrario alla sedizione. Però alcune ville della pieve stessa non erano d’accordo e si elessero un loro sindaco illegittimamente. Io sono d’accordo con Marino Sembianti.”.

Innsbruck: speranze deluse

La dieta di Innsbruck si apre regolarmente. Ferdinando d’Asburgo ascolta i 64 articoli concordati a Merano e altre 33 nuove richieste. In sintesi appare che i delegati pretendevano un patto per cui i poteri dovevano essere uniformi in tutto il territorio e delegati all’imperatore e che i vescovadi non potessero svolgere potere politico. Le trattative sono lunghe e laboriose. Dopo oltre un mese si giunge a concordare un nuovo regolamento del territorio (Landesordnung) che accoglie in minima parte le richieste dei contadini.
I sindaci di molte comunità delle valli di Non e di Sole fanno sapere all’arciduca che sono sempre fedeli alle autorità, anche e premono per avere ascolto alle loro giuste rivendicazioni pacificamente, solo una parte non è d’accordo. Il sindaco di Scanna, Cavizzana, Vigo, Toss e i sindaci di tutte le ville della pieve di Enno (Denno) per la precisazione inviano come propri nunzi i notai Antonio da Seio e Antonio da Coredo. Ci sono anche quelli che dichiarano di perdere tutte le proprie cose piuttosto che sottomettersi al potere del signor vescovo. Assicurano di non volersi lamentare in modo più ampio in attesa che i motivi delle loro lagnanze fossero rimossi. Allo stesso modo quelli di Levico, imitando il loro esempio, dichiarano di non voler fare nulla senza il consiglio di Nicolò e di non lamentarsi più del loro prefetto purché siano loro tolti gli intollerabili divieti e aggravi. Intanto vari commissari del vescovo provano a trovare accordi locali e incoraggiano i più timidi a non seguire i sediziosi. Molte vomunità non ne vogliono sapere e spesso li respingono minacciosi e continuano a ritrovarsi per essere pronti a reagire nel caso che il congresso di Innsbruck non porti a nulla.


Arriva notizia di funesti episodi

Il cappellano Lodovico, tornato da Torra per un incontro col pievano, riporta una sconvolgente notizia e la comunica ai paesani dopo la messa della domenica 23 luglio.

Racconta: “La rivolta in val d’Adige ha causato la morte del signore di Nomi, certo Pietro Busio. Il giorno 3 luglio aveva avuto il coraggio di affrontare i suoi contadini in rivolta ricordando che anche la città di Trento era tornata fedele al vescovo. Li invitò a firmare gli accordi che si stavano prendendo a Innsbruck. La ressa di persone che si era portata attorno al castello rifiutò ogni invito. Si levarono grida di dileggio e frasi ironiche: “Eccoci. Adesso veniamo a portarti le decime e a pentirci. Facci entrare.” Il Busio si rifugiò nella torre del castello. Accorsero anche contadini di altri paesi che occuparono il castello e accatastarono attorno alla torre fascine di legna e vi diedero fuoco. Il malcapitato feudatario in questo modo vi trovò orrenda morte.”.
Tutti sono scossi dalla terribile notizia. “Quale atrocità; non seguiamo questi tristi esempi.”, ammonisce il cappellano.
Uno dei presenti riferisce: “In una riunione il notaio Stefano di Casez, con i commissari mandati dal vescovo, cercava di riportare alla fedeltà i contadini promettendo ascolto alle loro richieste. Quelli di Coredo e Sanzeno erano ben disposti, ma gli altri non li stavano a sentire e protestarono violentemente gridando: – «Ci penserà l’arciduca Ferdinando. Aspettiamo le risposte da Innsbruck, del vescovo non ci fidiamo.» – Minacciosi, imbracciano balestre e frecce e uno ‘scolopeto’. Sentendosi in pericolo i commissari dovettero allontanarsi velocemente.”.
I presenti commentano in vario modo e si avviano verso casa per il pranzo.

Inquietudini dopo la dieta di Innsbruck

Continuavan le riunioni dei ribelli. Ad una di queste erano presenti i sindaci di Taio, Sfruz, Smarano, Torra, Vigo, Cloz, Romallo e Revò e Salter, Dambel; tutti gli altri fino a Fondo non parteciparono. Talvolta si decideva di inviano delegati a Innsbruck con risposte e nuove richieste. La fiducia nell’arciduca Ferdinando venne meno quando scelse come suo plenipotenziario in Tirolo il vescovo Bernardo Clesio ordinando a tutti i sudditi di prestargli obbedienza e aiuto per liberarsi dai sediziosi. La dieta di Innsbruck si prolunga e le delegazioni dei contadini, non abituate a disquisizioni formali, cominciano a ritornare ai loro villaggi. Intanto la rivolta in Germania e in Austria era del tutto sotto controllo con la sequela di punizioni esemplari, decapitazioni e altre mutilazioni, decreti di bando, confisca di beni e onerose multe e sanzioni.
Il 21 luglio si chiuse questa importante dieta con risultati di scarsa consistenza pratica per le classi in rivolta. Si arrivò alla formulazione di una nuova “Landesordnung” (una specie di statuto) entrata in vigore nel 1526 che trattava il diritto di caccia e pesca, i rapporti fra clero e autorità civili per le cose secolari, poteri di proposta al popolo per la nomina dei pievani e poche altre cose. Da subito i rivoltosi dovevano accettare i patti concordati, deporre le armi e giurare fedeltà ai principi ecclesiastici e laici.
Anche in Val di Non i commissari del vescovo si recarono in varie località per accogliere gli atti di sottomissione e le richiesta di clemenza. A loro difesa l’arciduca manda Bernardino di Tono capitano di Castelfondo con 500 soldati.


I commissari in Val di Non

Antonio Pollinel era stato a Cles per acquistare vari oggetti di consumo per le chiese. Lì in piazza erano riuniti gli uomini delle pievi di Denno, Tassullo Tuenno. Tornato a Vervò racconta cosa era successo domenica 19 agosto scorso.
Dice ad alcuni compaesani: “Gli uomini delle tre pievi riunite dapprima si rifiutano di giurare perché loro non erano mai venuti meno al giuramento di fedeltà al vescovo. Il commissario Andrea ricorda che la decisione dipendeva dalla dieta di Innsbruck e li convince. Molti alzano le prime tre dita della mano destra come giuramento. Quelli Mechel non giurano, ma lo faranno soltanto alla presenza del vescovo. Gli assenti sono stati diffidati di presentarsi per la successiva domenica per non subire la proscrizione la confisca dei beni.”. Conclude:”Forse dovremo andare anche noi di Vervò a prestare giuramento.”.
Che vuoi? – interviene Giacomo Battistella, - giuramento più, giuramento meno, basta che ci lascino in pace ed ascoltino i nostri diritti con i confinanti.”.

Attacco mancato dei ribelli a Trento

I Commissari trovano una forte resistenza ad accettare le disposizioni della dieta di Innsbruck da parte dalle persone di Castelfondo e di Senale che chiedono di consultarsi con i contadini della Val d’Adige. Si recano poi a Ossana e quindi scendono a Malé dove trovano un ambiente ostile che li respinge. A Revò sono convocate quattro pievi. Quelli di Livo ottengono in cambio che le decime non saranno più fornite dal campo, quelli di Rumo non volevano pagare le decime a Bernardino di Tono. Quelli di Brez dichiarano di falciare il prato di Bernardino di Tono, ma che si terranno il fieno. Infine quelli di Romallo mandano a pascolare i cavalli nel prato prima della segagione.
In Valsugana accade una seconda uccisione violenta riportata in vari modi. 1525 Il capitano di Castel Ivano Giorgio Puler (o Pucler) era uscito dal castello con una trentina di armigeri per punire i contadini di Strigno e Bieno che si erano rifiutati di portare al castello i tributi dovuti. Sparsa la notizia, si riuniscono le persone dei paesi vicini e marciano verso il castello. Nello scontro, disarcionato da cavallo, il capitano viene ucciso dalla folla esasperata in modo crudele. Il castello è assaltato e saccheggiato. I rivoltosi si dirigono poi verso castel Telvana che è ben difeso. Tutta la Valsugana è in fermento.
Gli insistenti tentativi dei commissari di ridurre alla ragione i rivoltosi recandosi nei vari paesi con la scorta delle milizie di Bernardino Thun non hanno buon esito. Il 25 settembre era stato inviato a tutti i sindaci l’ordine d ritrovarsi a Revò per rispondere ai commissari e inviare al principe vescovo un nunzio con i reclami concordati. Nonostante ciò nelle valli sono molti i villaggi che non accettano di giurare obbedienza e fedeltà al vescovo e prende corpo la decisione di marciare su Trento.
Si arriva a un coordinamento fra i rivoltosi tremtini che concordano un attacco concentrico alla città di Trento su tre colonne: da Est i ribelli della Valsugana e dell’altopiano di Piné, accampati a Cognola, dovevano entrare in città da port’Aquila; da ovest quelli della valle dei laghi che si erano raggruppati a Cadine, dovevano assaltare la porta Bresciana e attraversare l’Adige verso torre Vanga; da nord la colonna più numerosa di almeno tremila uomini proveniente dalla Val di Sole e Val di Non avevano il compito di attaccare la porta san Martino. Stavano per oltrepassare la Rocchetta quando arriva ai loro orecchi la notizia che il capitano Corradino di Clurnes, alla testa di truppe mercenarie spagnole, stava per invadere i loro villaggi entrando dal passo del Tonale. Scossi da grande preoccupazione per la sorte delle proprie famiglie e delle proprie case precipitosamente risalgono la valle del Noce e giungono fino a Ossana prima di rendersi conto di essere stati beffati. La voce fatta circolare da Baldassarre Cles, fratello del vescovo, era priva di fondamento. Delusi e infuriati assaltano il castello di Ossana e lo saccheggiano. Prima di disperdersi minacciano la rocca di Caldes e il castello di Samoclevo che resiste saldamente.
Venuto a mancare l’appuntamento con la colonna proveniente da nord, i rivoltosi tentano l’attacco alla città il giorno dopo senza successo. Le milizie della città di Trento al comando dei capitani Francesco di Castellalto e Angelo Costede costringono facilmente gli assedianti ad arrendersi e a deporre le rustiche armi.
Nei giorni dal 4 a 6 settembre ottengono il perdono del vescovo e giurano fedeltà in piazza vaccina (piazza Fiera) e presso la badia di san Lorenzo. Quindi tornano alle loro case lasciando in ostaggio degli uomini per l’osservanza dei patti.


Notizie e commenti in Vervò sui fatti in corso

Nella fucina di Simone Bertolini si discute di quanto succede. Uno dice: “Ho saputo che al vescovo scarseggiano i soldi per pagare i soldati.”.
Era da aspettarselo. – dice mastro Cristoforo Cavos da Sfruz che per caso si trovava a Vervò - Molti contadini anche da noi si rifiutano di consegnare le decime e altre imposizioni e così il vescovo ha richiesto dai nobili e dai prelati un contributo consistente per sostenere le spese dei soldati che servono per tenere l’ordine. Non ne sono punto soddisfatti e si dimostrano restii specialmente i signori Thun, ma si adatteranno per il mantenimento del buon ordine e della pace.” Aggiunge poi: “Noi a Sfruz ci siamo tassati per indennizzare alcuni uomini partiti come soldati per dimostrare a Trento con quelli della val di Sole e di altri paesi. E voi?
Il fabbro risponde: “Abbiamo saputo del proclama dei capi della rivolta diffuso in tutte le ville, col quale le invitavano a designare cinque uomini per cadauna villa con paga giornaliera di un fiorino a testa. Vervò non ha deciso nulla in merito e non so se qualcuno di sia aggiunto volontariamente.
Qualche giorno dopo il fabbro Simone era stato da Giovanni Bertoluzza di Tres e aveva raccolto alcune voci sulla situazione. Nella suo fucina, punto d’incontro di vari paesani, riprendono le discussioni.
Che grande inganno hanno subito i rivoltosi nostri!”, - esclama- “La colonna di quasi tremila soldati diretta a Trento per assalire la città è tornata sui suoi passi perché si era diffusa la notizia che i Lanzichenecchi stavano per entrare in valle dal passo del Tonale. Non si arriverà a trattare niente di buono e ci toccherà obbedire come sempre.”.
Giovanni Pasqual che aveva la carica di saltaro della campagna interviene dicendo: “Mi auguro che il vescovo e l’arciduca siano clementi e che non vogliano essere risarciti dei tanti fiorini spesi per le soldataglie.”. Uno poi dice: “Per chi si è esposto in prima persona sarà dura. Non penso che si avrà pietà di loro. Meglio che se ne fuggano lontani senza aspettare i processi!”.
Era l’ora del pranzo e molto tristi si lasciarono sospirando.

La rivolta è domata: le punizioni saranno gravose

Le autorità, ancora nei primi giorni di settembre, ritengono che la sollevazione dei contadini sia fallita. I rivoltosi sconfitti o dispersi non presentano più una seria minaccia. Con le milizie presenti e un altro migliaio mandato dall’arciduca sarà facile imporre ovunque la sottomissione, con qualche piccola concessione per non esacerbare gli animi. I commissari imperiali e vescovili, scortati dai militari, vanno di zona in zona a proporre le condizioni di capitolazione e a rinnovare il giuramento di fedeltà.
Il 12 settembre 1525 è emanata un’intimazione governativa ai villani che ancora non hanno voluto accettare le conclusioni della Dieta di arrendersi a discrezione sotto le pene indicate nei seguenti dieci articoli. In conseguenza:

I Capitani e i Commissari stessi dovranno subito dar mano alle interrogazione dei malvagi caporioni e procedere a pronti castighi a norma delle prescrizioni della Dieta.
L’opera di sottomissione si svolge celermente con direttive che provengono dall’arciduca Ferdinando e il vescovo Bernardo Clesio si lamenta di non essere convenientemente informato. Il più voglioso di vendetta è il conte Bernardino di Castelfondo che chiede fare un maggior numero di prigioniere da sottoporre a giudizio come pericolosi ribelli. I primi processi sono tenuti in Valsugana e poi si svolgono quelli in Valle di Non a cominciare dal 18 settembre.


Notizie dei giuramenti di sottomissione e cattura dei rivoltosi più attivi in Val di Non

I commissari convocano le persone dei vari villaggi nei centri più gossi per certificare il ritorno all'antica obbedienza e per far prigionieri i capi della rivolta. Se ne parla anche a Vervò domenica 24 settembre dopo la messa alla chiesa di San Martino.
I più informati sono i regolani della comunità e delle chiese che hanno avuto occasione di recarsi fuori paese e qualche persona del vicinato che era venuta a Vervò per devozione o per far visita a parenti o amici. Le voci si intrecciano concitate: dai discorsi si possono cogliere alcuni passaggi.
Il regolano maggiore, sindaco di San Martino, spiega a un folto gruppo di persone: “Lunedì scorso sono stato a Taio per confermare la nostra fedeltà al vescovo, mai venuta meno. In piazza c’erano i soldati tedeschi del conte Gerardo d’Arco che avevano catturato alcuni uomini compromessi. I commissari con arroganza accettarono le richieste di perdono e ordinarono a tutti i capifamiglia delle pievi di Taio e di Totta presenti di recarsi il giovedì successivo a Revò per prestare la dovuta obbedienza. Ho saputo che alcuni erano fuggiti dal paese con le cose di valore e masserizie, temendo l’arresto.”.
Uno di Dermulo esclama: “I fanti tedeschi hanno procurato maggiori danni di quelli fatti contro i castelli dai ribelli più accaniti. Le nostre donne tremavano tutte. Ma, per fortuna, sono andati oltre, verso Revò.
”.
Un signore piuttosto anziano era venuto a saper di cosa fosse successo a Revò giovedì 21. 1525 L’attenzione è grande. Racconta con voce emozionata: “Una grande folla di uomini era convenuta in piazza per sottomettersi sotto il controllo minacciose dei soldati mercenari. A un certo punto si sente una potente voce che grida - Amici contadini, non giurate, non giurate: stanno arrivando gli insorti atesini dalla Mendola. Combattiamo per la libertà, per …” -. Non finisce la frase che si trova bloccato da due robusti figuri e ridotto al silenzio. Il capitano Gerardo d’Arco non ha pietà: ordina che sia impiccato a un pero a lato della piazza. Sospiri di pietoso disgusto attraversano la piazza. Era Vittore di Sfruz, abitante in Termeno.”. Poi altre frasi: “Hai sentito quanti sono stati fatti prigionieri? Chissà quali pene dovranno subire.”.
Simone de la Gina dice: “Impiccati, decapitati, taglio delle dita che si usano a giurare, taglio della lingua, strappo degli occhi, grosse multe, sequestro dei beni e condanna all’esilio sono le pene che hanno subito i più colpevoli in Germania: temo che succederà anche da noi.”.
Si rincorrono alcuni nomi di prigionieri dei paesi vicini: Salvatore (lingua), Antoni Tomasin e Antoni Beza da Tres; Bernardino, (lingua) Domenego Caliar, (decapitato), Tadeo de mastro Lienardo, Antoni de Salvador Coradi da Taio; Angelo Baratillo da Sfruz (taglio delle dita); Simon Kremer da Revò; Janot Strobele da Romallo; Simone de Rolandinis, (decapitato) da Dambel; Bernardo Recla e Zuan casaro da Smarano (decapitati); Ambros da Priò; Peder del Zocol da Tos; Antonio Polin da Molar e Antonio di Jacomo murar da Cles.
Il cappellano partecipa alla conversazione. “Cari vervodi, ho sentito che fra i prigionieri c’è anche il curato di Revò, Francesco de Magistris nativo di Nanno. Aveva condiviso le richieste di molti poveri contadini in difficoltà, piegati dalle tasse e dalle decime, ma ancora in luglio sperava in una soluzione pacifica. Non penso che abbia condiviso quell’assalto alla città di Trento. Mi auguro che il tribunale a Trento sia indulgente, Speriamo in bene.”.
Giovanni Berlai commenta:”C’erano delle buone richieste da parte del popolo scontento. Spiace che sia andata così. Purtroppo temo che dovremmo pagare anche noi “sti ani che ven” per risarcire i danni causati: Ma ci aiuterà la provvidenza e andando d’accordo fra di noi.”.
Tristi si incamminano per la strada che costeggia la profonda valle di Fanzim per tornare alle loro case nel villaggio.

Punizioni e premi

In seguito alla sentenza del 21 settembre emessa contro i rustici che avevano operato nelle valli del Noce vennero banditi 52 ribelli. I paesi coinvolti per questa pena sono: Malé, Terzolas, Mastellina, Orgnan, Ossana, Caldcs, Bolentina, Bordiana, Samoclevo, Revò, Romallo, Cloz, Dambel, Smarano, Tres, Taio, Mollaro, Cles, Priò, Tos, Brez e Senales.
Come era successo a Revò, si ebbero altri processi in altri centri della Valsugana e direttamente a Trento per i rivoltosi della valle dell’Adige e valle di Cavedine. Nelle varie sedute dei processi susseguenti non fu usata pietà e alcune confessioni furono estorte con la tortura. Qualche persona facoltosa poté evitare la decapitazione, le mutilazioni o l’esilio pagando consistenti somme di denaro. Non migliore era la situazione di quelli che furono condannati in contumacia perché chiunque era autorizzato a farli arrestare e anche a ucciderli: ne avrebbero ricavato una ricompensa di 50 fiorini per la consegna dell'esiliato vivo. Nel caso della sua uccisione avrebbero goduto di completa immunità per il delitto e 25 fiorini. La pena di morte e confisca dei beni era prevista anche per chi li avesse aiutati nel loro esilio.
A Filippo da Como, tagliapietra, agitatore del popolo di Terlago, furono “cavati gli occhi”, poiché era stato sentito giurare che, se entro tre giorni non avesse demolito coi suoi il castello di Trento, avrebbe voluto perdere gli occhi ... .
Vi furono momenti carichi di tensione in quest’opera di ritorno all’ordine costituito. A Spormaggiore il 18 settembre, nottetempo, scoppiò un incendio in alcune case del paese dove era rinchiusa una decina di persone arrestate delle milizie giudicariesi del capitano Angelo Costede. Fra le fiamme persero la vita due soldati ma i prigionieri furono salvati e, il giorno seguente, tradotti alla Rocchetta e avviati a Trento. Anche in Valsugana ci furono dei focolai di resistenza con riunioni focose, quasi peggio di prima, specialmente in Selva. Il sindaco di Levico aveva avuto l’ordine dal capitano Graziadeo di Campo di condurre vino al conte Pellegrino di castel Selva. Egli si rifiutò e rispose che, piuttosto di condurre ancora rifornimenti al castello, tutta la comunità lascerebbe la patria. In ogni caso la presenza sul territorio di numerosi soldati riuscì a sedare ogni tentativo di ripresa della ribellione.
Le numerose condanne alla decapitazione furono eseguite a Trento dall’ottobre 1525 al maggio 1527 in piazza dei nobili, ovvero nella piazza Duomo, con la presenza dei popolani al suono sinistro della Renga. Da “Banditi e ribelli dimenticati” pagina 200” si trova che furono decapitati Cristello da Piné e Antonio Nicola da Stenico, capi dei rivoltosi pinetani; Lorenzo Travaglia di Laguna di Cavedine e Jacopo Nascimbene di Cadine, entrambi sindaci; Bartolomeo Salvatore di Caldonazzo. Il 16 ottobre fu tagliata la testa a Simone de Orlandini (o de Rolandinis) di Dambel e Pietro de Bertis di Tassullo, capi della rivolta in val di Non. Il 23 dicembre fu decapitato Jacopo Corradini di Borgo Valsugana, pittore di pale d’altare. Il 14 aprile 1526 fu decapitato Nicolò de Fedricis di Roncegno e Vigilio Tiomale feudatario di Cavedine già condannato all’esilio perpetuò; il 14 luglio fu la volta di Domcnico Orsoline di Nomi, ritenuto il maggior responsabile dell’uccisione di Pietro Busio; furono poi decapitati Simone de Gentili da Strigno, uno degli uccisori di Giorgio Puler, Silvestro de Migazzi da Cogolo, Domenico da Taio e il prete Francesco Menghini (o de Magistris) da Nanno curato di Revò.
Il vescovo Bernardo Clesio revocò diritti feudali, esenzioni e titoli gentilizi a chi si era dimostrato infedele (nobili rurali di Taio e Cagnò, ad esempio), e premiò con titoli nobiliari e assegnazione delle relative armi gentilizie (stemma) 1525 le persone che si erano adoperate per difendere la sua autorità. Si ricordano fra gli altri Antonio Ziller nobile notaio di Seio che ebbe il privilegio della nobiltà con lo scudo color giallo oro nella parte superiore e di colore rosso in basso nel quale sta al centro e sopra un cane eretto sopra una nuvoletta. Altre concessioni di nobiltà con armi gentilizie ebbero Riccardino Tavonatti di Denno, i notai Antonio Gatta di Coredo e Giovanni Tomeo di Denno abitante a Tuenno, i figli del notaio Pietro Bandinelli di Sfruz con lo stemma che raffigura un braccio teso e la mano aperta e la famiglia Guarienti di Rallo che ottengono lo scudo tripartito di trasverso, la cui parte l’inferiore è rossa, la media è di colore nero e la superiore bianca mostra in alto un moro che guarda dalla parte destra il suo cimiero. Altre famiglie della Val di Non che ebbero riconosciuta la loro fedeltà sono gli Inama di Fondo, Ulrico e Antonio Pinamonti di Tuenno, Jacobo Manincor e Giovanni Bonadiman di Casez Il Clesio infeudò, poi, Nicolò di Morenberg di Sarnonico dei possedimenti di Antonio da Coredo, decime e masi, delle Regole delle ville di Fondo, di Sejo, di Sarnonico, di Romeno e di Cavareno.


A Vervò la comunità torna alle occupazioni consuete

Nel maggio 1527 la comunità di Vervò, riprese le attività solite, aveva sentito delle decapitazioni e era rattristata e partecipe alle condanne a morte e alle altre atroci mutilazioni subite da persone dei paesi vicini che molti conoscevano personalmente. Bortolo Zanmaria e Giobatta Cristoforetti sono più sconvolti per il taglio della lingua di Bernardino di Taio e Salvatore di Tres che per le decapitazioni. Il 26 maggio i sindaci della chiesa di Santa Maria sono impegnati per l’inventario della chiesa con il loro cappellano Lodovico Albertelli.

Conclusione

Sembrava che il principio di dignità e di uguaglianza delle persone avesse trovato il modo di affermarsi nei borghi e nelle ville di campagna. Il Gaismayr aveva lottato a lungo per la costruzione di una comunità di eguali, senza servi e senza padroni, basata essenzialmente sul superamento della proprietà privata in tutte le sue forme, per una democrazia in cui non ci fossero privilegi di casta. Non fu così. La repressione ebbe il sopravvento. Di conseguenza la classe contadina fu emarginata completamente dal processo politico e fu considerata solamente come forza lavoro da spremere. La creazione poi di un consistente numero di nobili rurali con ampie esenzioni aggravò i carichi di imposte e doveri per le rimanenti famiglie all'interno delle comunità rurali.
Secondo alcuni storici la forza della repressione fu sostenuta con i capitali di grossi banchieri come Jacob Fugger che riusciva a condizionare anche l’imperatore Carlo V. Inizia l’importanza del capitale, ma non decolla un disegno di società più giusta, più solidale e senza privilegi di stato sociale. Riflettendoci un po’ mi viene da pensare che in mezzo millenio la nostra società nella pratica sia progredita di poco sul cammino della civiltà e dei diritti dell’uomo.


Descrizione dei movimenti delle folle di rivoltosi


Il Mariani scrive: “I villani marchiavano furiosi contro Trento a suon di corni e pive, sotto stendardi tolti alle chiese, e oltre l’armi e l’habito alla rusticana, portavano vettovaglia in un sacco detto carnero. (di qui la rivolta contadina del 1525 è conosciuta anche come guerra dei carneri)”.
Da Annali o croniche di Trento di Giano Pirro Pincio: “Caminavan guarniti di diverse armi, altri portavano archibugi, scaricavano da quelli, mediante la polvere solfurea, piccole balle di ferro, oscuravano col fumo, e fuoco il cielo. Percuotevano con strepitosi rumori come che fussero stati tuoni le Valli, altri portavano le piche, altri si valevano di spiedi, chi di manare erano armati. Riusciva cosa degna d’esser vista con quanta diligenza procurassero, si somministrassero gli viveri, combattendo ciascuno a proprie spese, col proprio danaro, volsero, che ogn’uno seco portasse tanto cibo, quanto giudicavano esser necessario per suo sostenimento stando in guerra.
Dunque da un lato pendeva il carniero di pane, dall’altro il fiasco di legno, fatto a torno. Con tali armi, arnesi impediti, alquanto ritardati si portavano avanti ora a due, ora a cinque, ora a schiere, non servavano nell’andar il passo militare, ma con dissoluto camino, trasportati per quei sassi, passavano frettolosi verso la Città. E acciò niuno si potesse scusare di non aver seguito il consiglio, il punto di quella si eroica spedizione, se à caso alcun di loro fosse andato à vedere figlioli, parenti, o (il che è più verisimile,) ritiratosi all’osteria, fu comandato che il Cornetta suonasse la marchiata, questo incontinente diede il fiato ad un corno di bue, è da una ben alta rupe, con rauco, ma strepitoso suono, chiamava dalle valli lontane la rozza, è silvestre gioventù alla morte. …
”.
I contadini erano armati dei loro attrezzi, forche e falcetti, di spuntoni e di qualche vecchio archibugio, scolopeti e balestre con frecce e marciavano al suono di cembali e tamburi. Sebastiano della Sbetta, sindaco di Borgo, gridava: «Sté saldi, de compagnia, cum le altre bachete (altri gruppi), che obtegniremo le nostre usanze vecchie!»



Testi consultati in rete: Banditi e ribelli dimenticati a cura di Corrado Mornese e Gustavo Burrati
Guerra rustica nel Trentino di Giambattista di Sardagna
Francesco Felice degli Alberti – Annali -
Gerolamo Brezio Stellimauro (medico di Brez al tempo del Clesio) – La guerra rustica nel Trentino – 1525
Tommaso Vigilio Bottea - La sollevazione dei rustici nelle valli di Non e di Sole nel 1525

Ho potuto leggere anche vari articoli di giornale o studi vari su questo importante periodo storico e quei tragici eventi.