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I veri motivi (non umanitari) della prima guerra Nato

Questi primi mesi dell'anno 2022 fanno vivere una dolorosa esperienza di guerra nella nostra Europa che preoccupa il mondo intero per possibili allargamenti. La Russia ha invaso l'Ucraina deliberatamente per porre fine alla guerra civile in atto da otto anni nella stessa Ucraina fra esercito e compagnie di combattenti nazionalisti conto gli insorti del Donbass che lottavano per l'indipendenza come minoranza russofona. Il governo Ucraino decide di resistere e USA, UK, NATO e quasi tutti gli stati dell'UE decidono pesanti sanzioni alla Russia di Putin e mandano armi e aiuti per sostenere la resistenza al fine a giungere al cessate il fuoco e alla pace. Zelensky invoca che la NATO entri direttamente in campo per sconfiggere l'invasore. Nel passato recente ci sono state altre guerre locali, ad esempio quella del Kosovo del febbraio 1998 - 11 giugno 1999 con intervento NATO. In merito ad essa voglio riportare un intervento del professor Giuliano Pontara di quel tempo.

Giuliano Pontara - professore emerito di filosofia pratica all’università di Stoccolma; presidente del comitato scientifico Università internazionale delle istituzioni dei popoli per la pace (Unip) Rovereto; membro del tribunale permanente dei popoli (presidente della giuria nella prima sessione di Berna sulla violazione dei diritti umani nei Paesi della ex Jugoslavia).

Il “breve” ma più violento secolo della storia umana, iniziato nei Balcani con la scintilla che accese la miccia della prima guerra mondiale, si chiude nei Balcani con la prima guerra della Nato, una guerra della più potente alleanza militare oggi esistente nel mondo contro uno stato sovrano e indipendente. Una guerra non improvvisata, che l’Uck ha cercato sistematicamente di far scatenare, preparata almeno da mesi, anche a livello di manipolazione attraverso i media. Che quella che viene presentata come “una ingerenza umanitaria” in realtà sia mossa da ragioni ben diverse ce lo ha fatto capire anche Clinton stesso quando ha detto che il Kosovo è di importanza strategica perché “sta a cavallo su una strada di importanza vitale tra Europa, Asia e Medio Oriente”.

Ragioni geopolitiche di stato muovono la macchina militare Nato-Usa. Di “ingerenze umanitarie” ci sarebbe stato ben maggiore bisogno altrove. Al di là della retorica umanitaria, gli Usa-Nato cercano di disegnare con la violenza nuovi confini, coinvolgendo sempre di più l’Albania (che non è membro della Nato, ma non è difficile da coinvolgere), destabilizzando non soltanto la Macedonia, il Montenegro e i Balcani, ma i rapporti con la Russia e con questi l’intera politica mondiale. I confini della Jugoslavia saranno cambiati, anche se è difficile dire come, ma saranno cambiati in piena contraddizione con il principio che sta alla base dell’Accordo di Dayton per cui i confini delle ex repubbliche della Jugoslavia non possono essere messi in questione, e attraverso una guerra che costituisce una flagrante violazione della carta dell’ONU e un pericolosissimo precedente. L’ipotesi più realistica è forse quella della divisione del Kosovo: una parte, quella in cui vi sono ancora molti serbi e in cui le identificazioni storico-culturali serbe sono più forti, alla Serbia e il resto integrato (un po’ alla volta) nell’Albania. Che l’Uck miri ad una Albania ancora, più grande che integri anche parte del territorio della Macedonia e del Montenegro a maggioranza di popolazione albanese, non è un segreto.

Il conflitto etnico-politico in Kosovo è vecchio, molto profondo e complesso: nel corso di esso le maggiori vittime sono state a volte la popolazione di etnia serba a volte quella di etnia albanese (secondo Amnesty International), tra il 1995-97 quattordici albanesi sono stati uccisi o “in circostanze non chiare” o in connessione con l’arresto da parte della polizia serba; nello stesso periodo, gli attacchi dell’Uck causarono la morte di 28 persone, di cui 7 erano civili serbi e 22 civili albanesi). È sempre stato chiaro che una secessione del Kosovo avrebbe comportato dei rischi gravissimi di guerra tra serbi e albanesi. Cosciente di questo, Rugova, eletto nel maggio del 1992 Presidente della autoproclamata Repubblica del Kosovo con il 99% dei voti albanesi cercò di condurre la lotta in modo non armato, costruendo istituzioni parallele. Ma la comunità internazionale, i paesi della Nato, ed in modo particolare gli USA, non hanno mai appoggiato questa politica di lotta nonviolenta con la sistematicità e la decisione con cui hanno invece appoggiato sempre di più la lotta armata dell’Uck. Il tragico naufragio della lotta nonviolenta in Kosovo e il sostituirsi ad essa della lotta guerrigliera è certamente una delle conseguenze della politica e dell’Accordo di Dayton (dai quali traspariva chiaramente che il Kosovo non avrebbe potuto contare sulla “piena indipendenza’), ma è anche da attribuirsi alla mancanza di mirate iniziative politiche da parte della comunità internazionale a sostegno della politica non armata di Rugova. È anche da notare che prima che l’Uck iniziasse le sue attività armate in Kosovo non vi erano state campagne militari serbe e che le forze del regime serbo scesero sistematicamente in lotta armata contro I’Uck solo dopo che quest’ultima prese il controllo dell’area di Drenica, riuscì a tagliare le arterie principali della regione e aumentò i propri attacchi contro polizia e civili.

Dire ora che tutto è stato provato e che quindi l’alternativa dei bombardamenti è l’unica alternativa efficace (rispetto a quali obiettivi?) è ipocrisia. Di alternative per fermare la violenza serba e albanese in Kosovo e per trasformare il conflitto ce n’erano ma è mancata la volontà politica di sceglierle. Già la mossa di porre, dopo Racak, un ultimatum a “tutte e - due le parti” in cui una parte, quella serba, veniva minacciata proprio di quelle sanzioni - i bombardamenti - che l’altra, l’Uck, tutto il tempo aveva chiesto e cercato di provocare - non poteva certo essere favorevole ad una trasformazione del conflitto. Invece di cercare di imporre al governo Jugoslavo, sotto la minaccia dei bombardamenti, un trattato come quello di Rambouillet, reso nelle sue varie successive versioni sempre più accettabile all’Uck ma chiaramente inaccettabile alla Jugoslavia come stato sovrano - si doveva cercare di trasformare il conflitto promettendo miliardi di dollari per lo sviluppo del Kosovo, sospendendo le sanzioni contro la Jugoslavia, appoggiando in pieno le forze democratiche di quel paese e operando costruttivamente per una sua piena riammissione all’ONU.

serbia 1999

Se si voleva una trasformazione del conflitto, invece dei bombardamenti che stanno distruggendo le infrastrutture di un paese e di conseguenza causano ora e in futuro gravi danni e sofferenze alla popolazione civile, oltre ai “danni collaterali” direttamente causati dalle bombe che distruggono quartieri abitati a Pristina, a Mirovac, a Novi Sad o massacrano colonne di profughi, come a Djakovica, - si doveva controllare, oltre al ritiro delle forze serbe, la cessazione delle attività militari dell’Uck aumentando, se necessario fino a dieci-cinquanta-centomila, i verificatori OSCE (operazione molto meno costosa dei bombardamenti, per non parlare di un’operazione di invasione a terra). Invece di appoggiare sempre di più l’Uck si doveva cercare di bloccarla, rendendo inattingibili le risorse economiche che essa ha in Europa occidentale, bloccando gli ingenti traffici di armi attraverso l’Albania e strozzando il mercato dell’eroina che nella regione fiorisce congiuntamente a questi traffici e in cui sono notoriamente coinvolte le mafie albanesi.

Già nel 1985 il “Wall Street Journal” stimava che la mafia kosovaro-albanese smistava dal 25 al 45 per cento del totale di eroina che entrava negli Stati Uniti. E nel 1996 la “U.S. Drug Enforcement Administration” riferiva al proprio governo che “ … albanesi etnici provenienti dalla provincia serba del Kosovo sono considerati, dopo i gruppi turchi, come i maggiori spacciatori di eroina lungo la strada dei Balcani … i gruppi di spacciatori kosovari sono noti per il loro uso della violenza e il loro coinvolgimento nel mercato internazionale delle armi” (testo “on record” presso il Department of Justice degli Stati Uniti). E mentre i leader dell’Uck incontravano a Ramboillet il Segretario di Stato Madeleine Albright, l’Europol allestiva un rapporto per i ministeri degli interni e della giustizia dei vari paesi dell’UE sui rapporti tra l’Uck e i gruppi dediti allo spaccio della droga. (The Times, Londra, 28 marzo 1999).

Intanto è ormai a tutti chiaro che la politica dei bombardamenti Usa-Nato ha sortito effetti contrari a quelli in funzione dei quali si è cercato inizialmente di giustificarla: ha rinforzato l’ultranazionalismo serbo, tolto ogni forza politica alla opposizione democratica in Serbia, contribuito a scatenare il maggior esodo di profughi che si è verificato in Europa dopo la seconda guerra mondiale: non soltanto vi sono ragioni di ritenere che molti sono stati buttati fuori dal Kosovo in modi estremamente brutali dalle forze militari e paramilitari serbe esasperate dai bombardamenti Usa-Nato visti come chiaro appoggio all’Uck, ma vi sono anche ragioni di ritenere che la gente, fuori e dentro il Kosovo, scappa dalle zone di combattimento tra le forze violente serbe e kosovare e dalle bombe della Nato-Usa.

La Nato-Usa è un’enorme macchina economico-militare, uno strumento di dominio internazionale volto intenzionalmente a sostituirsi sempre di più all’ONU (soltanto il Pentagono spende annualmente una somma 20 volte maggiore dell’intero bilancio dell’ONU); è una macchina che per funzionare, oltre che di un nemico, ha bisogno, prima o poi, di carne umana. L’ultranazionalismo serbo - come nel ‘95 quello croato in Kraina - viola sistematicamente i diritti più elementari in un’ulteriore prova di violenza spietata. L’ultranazionalismo kosovaro mira alla grande Albania, mette da parte Rugova (a Rambonillet è il ventinovenne guerrigliero Hashim Thaci che guida la delegazione kosovara, ed è di questi giorni la notizia che l’Uck ha “temporaneamente” dimesso Rugova) e non si fa scrupolo di togliere di mezzo albanesi che la pensano diversamente (come documentato, tra l’altro, già il 21 dicembre 1998 da fonti del Dipartimento di Stato USA). Con la democrazia la guerriglia albanese ha altrettanto poco da fare quanto i vari gruppi guerriglieri afgani cui gli USA e vari altri paesi europei hanno dato il loro appoggio per anni.

Così si chiude nel Kosovo il secolo: ancora una volta il campo è preso dai signori, dai pedoni e dai predoni, piccoli e grandi, della guerra - serbi, kosovari, albanesi, Nato-americani. Un secolo che nei suoi ultimi anni è stato insanguinato da terribili massacri: Rwanda, Burundi, GuineaBissau, Sudan, Somalia, Afganistan, Congo-Brazzaville, CongoKinshasa, Angola, Sierra Leone, Uganda, Iraq, Timor orientale, Algeria, Turchia continue sconfitte della dichiarazione con cui si apre la Carta delle Nazioni Unite approvata nel giugno 1945: “Noi, i popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra ...” I processi di de-umanizzazione e bruttalizzazione, strettamente connessi con l’uso della violenza armata su vasta scala in tutte queste parti del mondo sono sistematicamente in atto, creando ulteriori violenze, odi, desideri di vendetta in una spirale perversa dalla quale sembra sempre più difficile uscire. Contemporaneamente, decine di migliaia di persone (secondo certe stime centomila) muoiono giornalmente nel mondo a causa della mancanza di acqua, cibo, medicine - vittime di violazioni dei loro diritti fondamentali alla vita, a non morire di fame e di sete, che sono il prodotto della anonima violenza strutturale connessa con i processi di globalizzazione dell’economia e delle politiche dei prestiti praticate dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale. Il 1900 è il secolo della globalizzazione della violenza e della violenza della globalizzazione. Le prospettive per il prossimo secolo sono fosche. Ritornano alla mente le parole che il Mahatma Gandhi disse all’indomani dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki: “il mondo ricomincerà ad usare la violenza non appena saranno passati gli effetti di disgusto provocati della bomba atomica”: ma “la violenza non può essere eleminata dalla violenza”. La prima guerra della Nato deve essere interrotta, subito, pena una ulteriore e pericolosissima escalation della violenza nei Balcani; la gestione del conflitto deve ritornare all’ONU - che è debole e divisa ma è la somma autorità internazionale che i paesi stessi dalla Nato si sono impegnati a mantenere in vigore. Altrimenti il mondo riprecipita in una situazione di ancor maggiore anarchia in cui quella che vale è soltanto la legge del militarmente - oltre che economicamente- più forte.


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